di Luca Cecchelli

É un giovedì sera marzolino ma ancora buio, sono più o meno le 20.30.  Mi avvicino a passi lenti al Baluba Bar di via Foldi dove ho appuntamento con lo scrittore Andrea G. Pinketts, noto frequentatore. Man mano che mi avvicino al locale scorgo da lontano, davanti all’entrata, la figura di un uomo alto e robusto, con un cappello che ricorda Dick Tracy o Marlowe, intento ad accendersi un sigaro riparandolo dal vento con le mani. Finalmente davanti a lui non ho dubbi: è Pinketts in persona. Mi presento e lui mi invita a sederci sui divanetti esterni al locale, ai lati dell’ingresso. Prima di cominciare mi offre gentilmente da bere: io prendo un gin lemon e lui una birra bionda tedesca. “Dimmi tutto” mi dice garbato con voce profonda e sicura, cominciando a sorseggiare la sua birra…

pinkett 1+Cominciamo proprio dal Baluba Bar dove ci troviamo. Come è nata anzitutto la collaborazione con questo locale che la vede ospite fisso quasi ogni giovedì?
«Nel 2002 ho inaugurato il mio primo “Seminario per giallo e bar” al caffè PortNoy: l’idea era di trattare ogni tipo di mistero – letterario, cinematografico, pittorico e sociale – all’interno del clima da bar. Quindi non un raffinato caffè letterario, ma una meno formale “birreria letteraria”. In seguito ho portato questo progetto in diverse altre sedi, approdando anche qui al Baluba. Ci sono arrivato assolutamente per caso: un’amica, a sua volta conoscente dei ragazzi del Baluba, mi chiese di presentare qui un suo libro. In questo locale ho poi ritrovato tanti elementi che potevano interessarmi, come quella sorta di cripta al piano inferiore, a metà tra il cospiratore carbonaro e il paleocristiano…Dopo un primo felice esperimento due anni e mezzo fa da allora sono diventato il nume tutelare per questi incontri letterari del Baluba ogni giovedì».

Oltreché per gli interni suggestivi, la scelta del Baluba come sede per questi incontri è stata per caso influenzata anche da una predilezione per questa zona? Lei è nato da queste parti o ha dei particolari legami con questi luoghi?
«Io sono nato a Milano alla clinica della Madonnina…per questo sono uno scrittore della Madonna! (ride fragorosamente) La mie zone d’elezione infantile sono state più che altro via Bellotti, viale Piave, viale Majno, e i Giardini Pubblici. Però sì, la mia vita è intrecciata anche a questi luoghi circostanti: non distante da qui, vicino al tribunale, si trovava la mia palestra di kendo; poco più in là, in Santa Maria del Suffragio sono stato Lupetto e tempo dopo ho bazzicato la zona anche per conto della rivista Esquire infiltrandomi tra gli alcolisti anonimi. C’è un qualche richiamo».

Pinketts è più che uno scrittore: è stato pugile, fotomodello (nel 1986 è testimonial di una campagna pubblicitaria per Armani), maestro di arti marziali, attore, detective, copywriter, autore di testi per canzoni e giornalista. Ha insomma fatto tutto quello che voleva fare da piccolo?
«Devo fare una premessa: fin da bambino mi ha sempre affascinato il mistero. Nella mia infanzia luoghi come i Giardini Pubblici con lo zoo, le rocce e i suoi laghetti già rappresentavano spazi ideali per indagini. Ogni giorno vi facevo meravigliose scoperte. Non parliamo certo di Central Park ma di un territorio misterioso per gli occhi di un bambino, quanto poteva sembrare il Mississipi a Tom Saywer di Mark Twain. Quando poi a 10 anni mi sono trasferito dall’altra parte della città, insieme a mia madre rimasta vedova, sono venuto a contatto con ambienti tipo il Giambellino, che per me era come il Far West. Ero un bambino “bene” che di colpo si era trovato in mezzo a “cowboy” e balordi con i quali ho vissuto esperienze stravaganti o sentito raccontare storie bizzarre dai personaggi più assurdi. Più o meno in quel periodo sono stato svezzato: col tempo ho sempre più apprezzato quella fase di vita, veramente formativa. Vivere in quel clima in breve sempre più mi spinse ad interessarmi di giornalismo investigativo e di conseguenza ad avere molte vite. Sono stato sceriffo (detective comunale) a Cattolica nel 1992, eseguendo ben 106 arresti in sei mesi; mi sono infiltrato nella setta dei Bambini di Satana di Bologna facendoli ammanettare; ho fatto il barbone alla stazione centrale di Milano; sono stato finto pornoattore alla seconda edizione del MI-Sex…Ne ho fatte tante insomma: a parte l’astronauta forse sono effettivamente stato tutto quello che fantasticando avrei voluto essere fin da piccolo…e anzi anche ciò che non avrei mai voluto, tipo il barbone!»

Esperienze pur letterariamente interessanti da raccontare quanto spesso però realmente pericolose da vivere. Nonostante l’invidiabile coraggio nel condurre inchieste diciamo pure rischiose per conto di numerose riviste, a volte infiltrandosi in prima persona in realtà criminali, c’è un episodio che ricorda in cui ha avuto particolarmente paura?
«(Pensa un attimo)…Quella volta che mi sono trovato in una chiesa sconsacrata fuori Bologna per infiltrarmi nella setta dei Bambini di Satana. Durante un rito mi fecero inchinare davanti ad una ragazza completamente nuda, tra l’altro orribile, bruttissima. Alle mie spalle avevo un laccio infuocato che penzolava e un uomo incappucciato con uno spadone. Con me, lì nascosto nei dintorni, anche un collega fotografo, pronto a cogliere il momento giusto per scattare la foto incriminante: se in quel momento si fossero accorti del fotografo, capendo che io e lui eravamo d’accordo, probabilmente quello spadone mi avrebbe tagliato la testa e io non sarei qui seduto a raccontarti come è andata. Un momento di vera e palpabile tensione. Ma non è stato l’unico, ci sono state anche altre occasioni…»

pinkettPer esempio?
«Anche quando ho vissuto per un mese alla stazione centrale di Milano in mezzo ai barboni. A volte si pensa al barbone come ad un personaggio positivo, stile Leggenda del santo bevitore. Invece ben presto mi sono reso conto quanto di fatto non esista alcun vincolo di solidarietà tra i clochard. Per anche mille lire (all’epoca) il tuo migliore presunto amico era capace di darti una coltellata».

E invece un bel ricordo, sempre legato a queste indagini?
«Quando ho fatto l’attore porno al Mi-Sex: Udo Cuoio “Re della frusta”…! Quello che conta veramente però è che ognuna di queste diverse vite mi ha permesso di toccare con mano realtà che non mi appartenevano: numerosi sono stati gli episodi tratti da queste esperienze che ho poi raccontato sui giornali, ognuna frutto di diversi incontri. E ogni incontro mi è stato fondamentale per capire e quindi concepire poi delle situazioni di vita, pur romanzate, con relativi protagonisti. In questo senso lo scrittore è diventata la figura fondamentale di collegamento tra tutte queste vite. E il mio vero mestiere».

Veniamo dunque alla sua professione principale. Quando cominciò ad interessarsi al giallo e al noir?
«Più che al giallo o al noir in senso lato, ripeto, sono sempre stato interessato proprio al mistero. E la passione per il mistero nasce dalla curiosità. Sempre da quella curiosità infantile di cui dicevo sopra. Quello spirito mi ha sempre accompagnato».

Il gusto per il mistero dunque. In che percentuale però realtà e fantasticherie, pur ispirate alle sue indagini, si completano nei suoi testi?
«Nei racconti mi lascio sempre andare a qualsiasi fantasia, casta o perversa che sia. Ad esempio nell’ultimo libro per Mondadori, “Ho una tresca con la tipa nella vasca” (2014), mi sono inventato in un racconto questo improbabile amore tra un camorrista napoletano e la statua della sirenetta di Copenhagen. I miei romanzi invece sono più realistici perché ambientati in un preciso luogo e in un preciso momento storico».

A proposito dei luoghi in cui ambienta i suoi romanzi, Milano ne è spessissimo il set ideale. Milano è una città noir o semplicemente i suoi luoghi ben si prestano ad essere romanzati in stile noir?
«Milano è una città decisamente noir, fatta di tante sfaccettature sociali. Antenati letterari di questa Milano noir sicuramente già si possono rintracciare nei racconti degli scapigliati di metà ottocento. Negli anni ’60 riemergono nelle storie della mala di Giorgio Scerbanenco, che racconta l’altra faccia del boom sprovincializzando la dimensione sociale del racconto – io mi ritengo un suo devoto nipote letterario. Negli anni ’80 invece scrittori come Renato Olivieri narrano una Milano insidiosa e pericolosa, soprattutto relativa a quella parte più borghese tra via Anelli, via Crivelli e viale Bianca di Savoia. Negli anni ’90 poi sono arrivato io: per riattualizzare il noir ho deciso di esplorare i nuovi cambiamenti della città di libro in libro, dalla Milano da bere a Tangentopoli, dal periodo delle modelle americane alle russe agli albanesi, considerati in quel decennio “i cattivi”. Cattivi intesi come “lo sconosciuto che fa paura”: in questo senso i primi sono stati gli africani e poi gli slavi».

E oggi invece chi sono “i cattivi”?
«I rumeni. Chiaramente non è vero che siano “i cattivi”. Diciamo che, secondo casistiche di identificazione e di criminalità, ci sono state evoluzioni sociali per cui oggi un albanese viene meno etichettato come criminale di quanto non lo sia qualsiasi rumeno. Io amo molto i rumeni: anzi in questo periodo sto ambientando un romanzo tra Milano e la Romania che vuole porsi in difesa di un pregiudizio diffuso».

Contro il pregiudizio dunque: non a caso il titolo di un altro suo romanzo è proprio Il dente del pregiudizio (2000).
«Sì, a me piace scrivere contro i luoghi comuni: cerco di abbatterli, di far capire che il crimine non ha una nazionalità, non ha un colore».

Restiamo al suo mestiere. Ne Il senso della frase, suo terzo romanzo con il quale ha vinto il Premio Letterario Giorgio Scerbanenco nel 1995, dice: “Non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così, ma ho il senso della frase”. Questo senso della frase corrisponde ad una sua precisa tecnica compositiva?
«Io comincio sempre da un titolo che mi comunica o evoca possibili storie e particolari. A quel punto so da dove partire ma non so esattamente a quale conclusione arriverò o se ci arriverò. Mi faccio sorprendere senza alcuna progettualità ogni giorno solo dalla mia stessa penna – niente computer o altro, odio la tecnologia. Seguo una sorta di surrealismo compositivo in cui mi faccio piacevolmente sedurre da giochi linguistici e sperimentali meccanismi narrativi, sempre diversi ma brillanti, alla ricerca di uno stile sempre rinnovato e mai codificato».

Ma esiste un trucco per appassionare alla lettura?
«Io scrivo in buona parte quello ho vissuto: potrei dire che il segreto è rivivere con umana partecipazione quello che stai scrivendo, trasmettendo così al lettore autentiche emozioni. E l’autenticità a sua volta deriva dalla verità che riporti da situazioni e personaggi: se vuoi raccontare un killer devi pensare come un killer. Ma questo vale per ogni personaggio. Nel raccontare poi è sempre importante tenere viva l’attenzione con un pizzico di tensione».

Per sua stessa ammissione lei comincia ogni suo romanzo nel giorno di Ognissanti. C’è un motivo particolare?
«È una sorta di scaramanzia che ho adottato da quando cominciai il mio primo romanzo, “Lazzaro vieni fuori” il 1° novembre – seguito, come è noto, dal giorno dei morti. Nei miei libri ci sono sempre molti morti ammazzati: ho voluto crearmi una sorta di rito di autodisciplina celebrando l’inizio di ogni composizione in quella ricorrenza».

E funziona?
«Pare di sì (sorride)».

Il primo romanzo è appunto “Lazzaro vieni fuori” del 1992. Lazzaro Santandrea è un personaggio-guida in molti dei suoi romanzi. Ecco, come è “venuto fuori”?
«Lazzaro Santandrea è un mio alter ego che di me condivide alcune abitudini e ricordi, con una vocazione morale ma non moralista per la giustizia. É come se fossimo in due».

E in qualità di personaggio, se così si può dire, è nato prima Pinketts o Lazzaro Santandrea?
«…È nato per forza cronologicamente prima Pinketts! (ride)»

Perché ha scelto di chiamare questo suo alter ego proprio Lazzaro Santandrea?
«Il nome Lazzaro mi piaceva in quanto riferimento ad un celebre zombie della storia. Ma anche per l’assonanza con la parola lazzarone. Col cognome Santandrea invece ho voluto abbinare sacro e profano: Lazzaro cioè è sì un lazzarone ma ha il cognome di un santo. E il cognome santo contiene il mio vero nome, ossia Andrea. Per cui Lazzaro Santandrea mi è sembrato perfetto. Un santo agnostico a cui non piace l’investigazione ma a cui piovono addosso casi».

E si ricorda anche quando e come ha concepito il suo primo romanzo?
«Dunque, avevo già inventato Lazzaro Santandrea. Stavo cercando qualcosa che mi desse lo spunto per una storia ritagliata su questo personaggio. Stavo rileggendo il Vangelo di Giovanni alla ricerca di un’ispirazione finché giunsi al famoso passaggio del “alzati e cammina!” ma nella sua versione meno nota, che recitava invece “Lazzaro, vieni fuori” (vv. 11-43). Mi parve subito un titolo bellissimo perché quelle parole pronunciate da Gesù potevano sembrare sia semplicemente “Lazzaro vieni fuori” che anche “Lazzaro vieni fuori…che ti faccio un culo così!” Una sorta di minaccia western o da bar».

Lei è ateo o credente?
«Agnostico. Ma sono molto attento a tutte le forme di religione. Da battesimato cattolico in particolare mi incuriosiscono certe contraddizioni estreme del cattolicesimo».

Rimanendo ancora per un attimo in questo cortocircuito di letteratura e realtà, se al contrario Pinketts fosse il personaggio di un romanzo, chi vorrebbe essere?
«Forse il Grande Gatsby. È un personaggio bello e dannato, uno “sciupone” della propria vita. E anche perché Fitzgerald era un grandissimo scrittore che ha proiettato in Gatsby la propria vita».

In tema di letteratura americana lei è stato definito per la prima volta proprio da Fernanda Pivano uno scrittore post-moderno. Cosa ricorda della Pivano?
«Fernanda Pivano è stata una delle mie prime estimatrici e una grande amica. Quando mi scoprii avevo già pubblicato i miei primi due romanzi che la entusiasmarono. Divenne la mia madrina letteraria. Io la consideravo una specie di nonna. Anche se voci maligne dicevano addirittura che fossimo amanti…ma sai, avevamo giusto quei 60 anni di differenza!»

Passando alle altre tappe fondamentali della sua attività letteraria, lei si è anche fregiato del titolo di “Cannibale” per aver partecipato all’antologia di racconti “Gioventù cannibale” per Einaudi (1996). Quanto ha significato quell’esperienza nella sua carriera?
«Quell’antologia rappresentò un esperimento dell’Einaudi che voleva creare e lanciare una serie di nuovi nomi. Da lì infatti uscirono anche Niccolò Ammaniti o Aldo Nove. Negli anni ‘90 ci fu una specie di ribellione nei confronti della letteratura italiana togata e post-resistenzialista e io feci parte di questa nuova ventata rappresentata dal noir, dal giallo e dal macabro, la riscoperta di generi che in realtà appartengono da sempre alla letteratura. E anche alla nostra tradizione: non mi riferisco solo ai già citati racconti degli scapigliati ma anche ai Promessi Sposi di Manzoni che è un noir alla fine, se ci pensi bene…»

…Non l’avevo mai considerato in questa prospettiva! Certo è vero che noir, giallo e pulp sono generi alla base di un fenomeno letterario vasto e diffuso sviluppatosi in Italia verso la metà degli anni ’90. A parte il genere di riferimento lei comunque è apprezzato anche per la sua peculiare prosa contraddistinta da un uso del linguaggio istrionico, surreale, sarcastico, dissacrante e amaro. Come ha coniato questo stile? È stato frutto di un percorso personale o la sfida e il gusto di seguire una nuova corrente?
«È stato un percorso personale ma di fatto sono stato influenzato dal gusto per la trasversalità letteraria che appartiene a questo genere. E un po’ a tutti gli scrittori della mia generazione. Quindi anche a me, anzi direi soprattutto a me. Con trasversalità intendo dire che per me cinema, letteratura, pittura, musica, fumetto sono tutte arti gemelle. Anche la vita del bar è arte. Non esiste il nobile o l’ignobile o l’alto e il basso: tutto è squisitamente trasversale. E così, forse proprio in virtù di quel famoso senso della frase, ho codificato diverse influenze e suggestioni».

Quali sono – se ci sono stati – quei libri che l’hanno segnata prima di cominciare la sua esperienza come scrittore?
«Come tutti quelli della mia età ho letto Salgari. Prima citavo anche Mark Twain. Ma potrei aggiungere anche George Orwell, William Shakespeare, Rabelais, il Dumas dei Tre moschettieri…tanti tanti autori, quelli tipici di una buona formazione letteraria. Tutti diversissimi tra loro ma accomunati da quel cinismo partecipe o se preferisci da quel senso dell’avventura e della scoperta da cui mi sono sempre lasciato affascinare».

Dati i tanti spunti offerti da questa formazione, evadendo per un attimo dal trasversale genere postmoderno, non ha mai avuto il desiderio di confrontarsi con altri generi “puri” oltre al noir e al giallo?
«Il punto è questo: io non appartengo a nessun genere. Sono io stesso un genere. A parte forse il primo romanzo, “Lazzaro vieni fuori” – che ha degli elementi del mystery in quanto costituito da una serie di procedimenti per arrivare alla scoperta di un assassino – a ben vedere io non ho mai scritto un giallo in vita mia. Tutti gli altri romanzi sono opere che definirei sociali o associali, dei ritratti, delle pennellate di vita».

Semplicemente?
«No, non semplicemente, complessamente! Ogni indagine e ogni crimine raccontato è un pretesto per presentare un quadro sociale. Il noir è un genere che bene si presta a raccontare il nostro drammatico presente pur stemperato dall’ironia dei suoi protagonisti calati in situazioni grottesche».

A proposito di trasversalità e versatilità, lei è anche autore di un’opera teatrale, “Orco Loco” (2004) interpretata insieme al cantautore Francesco Baccini, prodotta col patrocinio del Teatro Franco Parenti, poi portato in molti teatri italiani. Come mai la voglia di misurarsi anche col teatro?
«Il teatro fa parte delle mie basi culturali insieme alle altre arti gemelle di cui dicevo prima. C’è stato un incontro con Baccini, che è un amico, e il teatro Franco Parenti: grazie ad Andreé Ruth Shammah abbiamo deciso di unire queste due voci diverse ma simili, la mia e quella di Francesco, in un musical».

Quella di attore teatrale è stata un’esperienza singolare?
«No, ho lavorato anche con Roberto Brivio su Shakespeare e sono stato Pericle principe di Tiro al Teatro Ariberto».

Lei è noto non solo ai suoi appassionati e fedelissimi lettori ma anche agli spettatori tv per la partecipazione come giurato alla prima edizione del reality La pupa e il secchione e negli ultimi sei anni come autore e inviato per la trasmissione Mistero, programma di Italia 1 sul paranormale e l’arcano. A quando risalgono i suoi primi rapporti con la tv e quanto hanno contato queste esperienze rispetto alla sua attività di scrittore?
«I rapporti con la tv nascono dalle prime ospitate al Maurizio Costanzo Show, più volte alla fine degli anni ’80 – dandomi una riconoscibilità tale da determinare la fine del mio ruolo da detective infiltrato! In seguito sono stato spesso anche opinionista, termine che non mi piace molto a dire il vero. Sono esperienze, come tante altre, dalle quali ricavo materiale per scrivere di vita. Però, specifico, non le considero esperienze secondarie: tutto rientra sempre nella scrittura che è il mio lavoro fondamentale».

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Ultima domanda…
«Sì ma falla in fretta (con trepidazione, guardandosi attorno)…»

Una curiosità sul suo nome: dall’albo dei giornalisti dell’ordine della Lombardia risulta che il suo nome completo sia Andrea Giovanni Pinchetti. Perché allora Andrea G. Pinketts?
«Come dico sempre G. sta per genio. Pinketts, il vero cognome della mia famiglia, fu italianizzato in Pinchetti sotto il fascismo, cosa che all’epoca capitava piuttosto frequentemente con i nomi di origine straniera. Io sono milanesissimo ma di padre irlandese. Mia mamma invece è trentina, di padre tedesco».

(lo vedo bere un ultimo sorso)…sarà per quello allora che le piace la birra ?
«Sì assolutamente. Mi piace la Guinness che è irlandese ma anche le birre tedesche: su una Spaten non ci sputo sopra! Provengo da due paesi che hanno la cultura della birra per cui…»

Pinketts a questo punto si ferma per un momento sfumando la frase e fissa il suo bicchiere di birra quasi vuoto sul tavolo, con quei tipici residui di schiuma colante sulle pareti interne. Rimane pensieroso per qualche istante, un po’ più del dovuto, quasi a cercare le parole in quel bicchiere. Poi fa per riprendere il discorso, si volta e mi dice “Adesso però scusami ma devo proprio salutarti”. Mentre si alza aggiustandosi il cappello io lo guardo un po’ stupito, al che lui sarcasticamente aggiunge: “Sai com’è la birra…come entra nel tuo corpo poi deve uscire! Anzi se vuoi puoi chiudere l’intervista proprio così. E ricordati che non esistono stili alti o bassi ma tutto può essere letteratura. Anche una birra di Pinketts.”

L.C.

aprile 2015

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