Sempre più lontana dalla vocazione industriale, l’area di via Mecenate, poco abitata e ben servita con l’accesso alle principali vie di comunicazione per chi arriva da fuori Milano, e presto anche dalla nuova linea della metropolitana M4, continua poco a poco ad imporsi come polo alternativo della moda e dell’intrattenimento milanese.
Simbolo di questa riqualificazione sono ad esempio gli studi televisivi Rai ed East End e da poco più di un anno il Fabrique di via Fantoli 9, nuovo spazio vanto non solo della nostra zona ma della città: una futuristica struttura modulabile su oltre 2000 mq pensata per ospitare concerti e djset ma anche eventi d’arte, moda o cultura. Con la sua capienza di 3100 posti è la location più importante a Milano dopo il Forum di Assago, considerata anche la recente fine del Palasharp di Lampugnano, smantellato nell’ambito dei lavori di riqualificazione per EXPO 2015.
A poco più di un anno dall’apertura siamo andati a fare un bilancio col direttore Daniele Orlando sulla sua terza e fortunata avventura legata al mondo dell’intrattenimento musicale, dopo la guida del famigerato Rolling Stone di corso XXII marzo e i Magazzini Generali di via Pietrasanta, ai confini con la zona 4.

Scoprendo poi che il segreto del successo è quella “grande donna” che si trova sempre dietro le imprese di un grande uomo…

A soli 40 anni sei un affermato manager e già storico organizzatore di eventi musicali: Daniele, a cosa lo devi?
«Alla mia passione per la musica, da quando avevo 10 anni. Tutto comincia nel bar vicino casa: all’interno c’era un juke box e ogni volta che venivano a cambiare i singoli in classifica mi facevo regalare i 45 giri sostituiti. Mi ritrovai a collezionare nel mio garage a Bresso migliaia di dischi: mia madre allora mi regalò un impianto per fare il dj e cominciai a registrare i primi mix sulle audiocassette.
Dopo la terza media non ne volevo più sapere di studiare: e dal 1989 quella passione diventò un lavoro. I primi ingaggi come disc-jokey furono la domenica pomeriggio al Carisma in via Santa Maria Segreta angolo Cordusio e, insieme a Claudio Cecchetto, in quella che sarebbe diventata la discoteca Divina in via Molino delle armi: quando la frequentavo io si chiamava New York City».

A quando risalgono i tuoi primi contatti con la zona?
«A metà anni ‘80, quando avevo 11 anni: mia zia, alla quale ero molto affezionato, lavorava come custode in via Piolti De’ Bianchi e io la domenica pomeriggio andavo a trovarla. Mi portava a mangiare il gelato in corso XXII marzo: ricordo che vedevo queste code interminabili di capelloni col chiodo di fronte ad un locale che si chiamava Rolling Stone. Un po’ stranito chiedevo “ma zia, cos’è quel posto?” e lei mi rispondeva “Una sala concerti…”; “Che brutta gente!” dicevo io riferendomi a quei rockettari, che all’epoca neanche sapevo cosa fossero…e neppure quanto quel luogo sarebbe stato determinante per la mia vita».

Soprattutto per la carriera di un giovane disc-jokey suppongo…
«Già. Per casualità proprio quest’area, tra viale Piceno e corso XXII marzo, divenne determinante per la mia carriera. Dai primi anni ’80 vi nacquero, oltre al già citato Rolling Stone, anche il Killer Plastic Zero in viale Umbria e in viale Piceno il New Magazine, un disco-pub: qui cercavano un disc-jokey che mixasse musica vintage, come si direbbe oggi; benché avessi solo 16 anni mi proposi e mi presero. Il New Magazine mi piaceva perché era un disco-pub molto moderno rispetto agli altri: basti pensare che all’epoca era uno dei pochi nei quali si poteva ballare sui tavoli dopo una certa ora. Cominciai mettendo dischi ma a poco a poco, passando molto tempo nel locale, finii per occuparmi anche di altro. Notando interesse e partecipazione il proprietario dei tempi mi spiegò sempre più dettagliatamente in che modo si dovevano fare le spese, come si controllavano gli ordini che arrivavano dalle forniture o da dove si partiva per organizzare una serata. Meglio di uno stage: in effetti diventai un piccolo gestore a soli 18 anni. Purtroppo infatti lui si ammalò: casi della vita, mi ritrovai poco più che adolescente a portare avanti quell’attività che ai tempi contava già 12 dipendenti. Quando poi il gestore venne a mancare nel 1994 rilevai per metà l’attività. E nel frattempo continuavo a fare il disc jokey insieme a Cecchetto, spesso al Propaganda di Milano o all’Alcatraz, dopo che aprì nel 1997: grazie a questo doppio lavoro riuscii a permettermi di rilevare definitivamente l’intera attività del New Magazine, portandola avanti fino al 2000».

Cosa succede nel 2000?
«In quell’anno venni a sapere di un posto vacante come direttore artistico proprio in quella sala che vedevo la domenica con mia zia: il Rolling Stone di corso XXII marzo. Anche se ero ancora giovanissimo e la mia formazione di base veniva certo da un’attività più modesta fissai comunque un appuntamento con Maurizio Salvadori, il proprietario di allora, nonché fondatore della Trident Agency».

Come andò quel colloquio?
«Visto come è andata la storia…direi bene! Forse la mia fortuna fu che a 22 anni ero già così come mi vedi: Salvadori era cioè convinto di assumere un trentacinquenne rampante e navigato…e invece sarà poi il Rolling Stone a dare a me una vera impronta professionale e di vita».

Com’era la situazione quando sei arrivato alla direzione del Rolling Stone, oramai considerato storico locale milanese definito “il tempio del rock”?
«Dagli inizi degli anni ’80 e fino agli anni ’90 era stato un vero locale di riferimento per il rock: ci sono passati Lou Reed, Iggy Pop, Joe Cocker, Bob Geldof, Brian May dei Queen, Ramones e Oasis giusto per nominarne alcuni. Quando però arrivai io nel 2000 in realtà di concerti con quei nomi se ne facevano già pochi. Li rilanciammo con le nuove band indie, un genere che andava tantissimo come musica dal vivo in città e al quale anche io mi ero affezionato: Roy Paci, i Bluebeaters o i Modena City Ramblers e sul versante straniero Muse, Creed e Chris Cornell. Il mio team ed io siamo riusciti a riavvicinare il pubblico ai concerti, grazie anche alla collaborazione con Rock Tv che nasceva in quegli anni. Il contenitore Rolling Stone solo come musica dal vivo però, date le potenzialità, mi risultava un po’ limitato e così approfittai della fama del locale anche per lanciare altri eventi: accanto alle serate con la discoteca rock, che francamente cominciavano a sapere di nostalgico, proposi ad esempio quella hip-hop o quella con musica di tendenza chiamata “P Gold” (il Pervert d’oro), una domenica sera al mese. Quegli eventi rappresentarono il mio primo approccio nei confronti dei futuri dj set internazionali».

RollingStoneQuindi le tue idee hanno funzionato?
«Allontanandomi dalle aspettative di un locale considerato “il tempio del rock”, minimo qualche insulto è stato inevitabile…però diversificare l’offerta è stato positivo ed ha risvegliato il Rolling Stone. Al punto da rappresentare paradossalmente l’inizio di altri problemi: il Rolling Stone aveva una capienza legale di 2000 persone e durante quelle domeniche potevamo toccare un pubblico di 3-4000 frequentatori. L’affluenza cominciava alle 21:00 e quando il locale stava per chiudere, poco prima delle 5:00, le circa 3000 persone all’interno impiegavano almeno altri tre quarti d’ora per ritirare i capi e lasciare il locale: e così alle 6:00 del mattino del lunedì una massa di persone un po’ stranite dalla notte prima si riversava nelle strade circostanti insieme ad altri che alla stessa ora prendevano i mezzi per andare al lavoro. Inevitabilmente qualche disordine si creava e spesso mi ritrovavo a passare il lunedì mattina in questura a spiegare…»

Le problematiche principali riguardavano la gestione del pubblico?
«Riguardavano anche una serie di problemi in principio sottovalutati e poi inevitabilmente emersi. All’alba degli anni 2000 ormai corso XXII marzo era diventato centro: un problema evidente era rappresentato dai rapporti col vicinato. Intanto, data l’ubicazione del locale, un’importante criticità era rappresentata dai parcheggi, che chiaramente determinavano una convivenza invivibile con i condomini circostanti: le lamentele erano continue, soprattutto contro di me…Tanto che quando ho deciso di aprire il Fabrique la prima cosa alla quale mi sono interessato sono stati proprio i parcheggi!
C’era poi un problema strutturale che riguardava il locale, non tanto a livello architettonico – ancora oggi ritengo sia stata col suo anfiteatro a due piani una delle strutture più belle che abbia mai visto – quanto a livello di inquinamento acustico. Va considerato che la struttura di partenza era quella di un ex cinema: pur investendo nelle ristrutturazioni è molto difficile riuscire ad insonorizzare una sala che non è nata dotata di materiali insonorizzanti; le pezze funzionavano fino ad un certo punto contro le vibrazioni dei bassi che attraverso le tubazioni condominiali arrivavano su per i palazzi circostanti.
Questa serie di problemi infine aveva avuto l’effetto di allontanare gli organizzatori e di conseguenza le band».

Tanto che oggi il Rolling Stone non solo ha chiuso i battenti ma non esiste più: al suo posto svetta la “Stone Tower”, un edificio di 12 piani con porticato, box e, sulla strada, negozi e uffici. Cosa è accaduto?
«Accadde che quando il Rolling Stone chiuse definitivamente nel 2007 di fatto purtroppo era già finito da tempo, come si può capire. Maurizio Salvadori, che lo aveva coraggiosamente restaurato a metà degli anni ’90, arrivò al punto di doverlo rivendere ad Enrico Ravelli, colui che lo aveva fondato nel 1981 dalle ceneri dello «Studio 54». Ravelli lo gestì altri sei mesi ma non credo che gli andasse così bene: allora decise di venderlo a sua volta alla proprietà dei muri che gli offrì una buona uscita per poi edificarci sopra il palazzo dell’attuale Stone Tower. E fu così che nel 2007 cominciarono i lavori dell’edificio che si vede oggi».

Come valuti la fine del Rolling Stone?
«Personalmente non sono mai stato d’accordo per la vendita. Io ho sempre creduto fino all’ultimo in tutto quello che ho fatto: basti pensare che quando già sembrava cosa certa la cessione nel 2006 il mio team ed io avevamo pianificato un’ottima programmazione che arrivava fino alla fine di aprile 2007. E invece fummo costretti ad uscire dall’attività in corsa, il 12 dicembre 2006: neanche il tempo di un passaggio di consegne a fine stagione…Per una serie di motivi però non ho potuto fare altro che abbozzare, essendo socio di minoranza. Voglio però ricordare positivamente tutta quella fase della mia vita: ho imparato molto dal Rolling».

La chiusura del Rolling Stone in fondo segna solo la fine di un capitolo della tua carriera che però non si arresta e anzi continua ai confini della zona 4: come arrivi ai Magazzini Generali?
«In quella stessa settimana del dicembre 2006, cessata l’attività col Rolling Stone, casualità volle che ebbi un contatto per rilevare i Magazzini Generali di via Pietrasanta, falliti e chiusi già da un paio di mesi. Feci l’offerta al curatore fallimentare e li acquistai facendoli riaprire già nel gennaio del 2007. Fino a giugno però: poi richiusi di nuovo per una ristrutturazione totale fino al settembre di quell’anno.
Quando li acquistai i Magazzini Generali non erano solo a pezzi a livello di immagine ma anche dal punto di vista della sicurezza: niente aria condizionata, aspiratori e impianti elettrici a norma».

E una volta rimessa in piedi la struttura in che modo hai lavorato sull’immagine del locale?
«Grazie ad un viaggio ad Ibiza. Nell’estate del 2007 cominciai a frequentare per la prima volta l’isola spagnola e i suoi locali. Soprattutto venendo dal ristretto mondo del rock la prima cosa che mi colpii fu la crescita artistica e la fama di certi dj con relativi costosissimi biglietti d’ingresso in discoteca: “Perché a Milano per entrare in discoteca ci vogliono 8 € e qui a Ibiza te ne chiedono 50 e la gente ci va?!” Quella realtà mi stuzzicava: realizzai presto che l’utile era tutto lì. E che anche io avevo a disposizione quanto mi serviva per giocare quella carta. I Magazzini Generali avevano già avuto un brand famoso e un passato di tendenza con dj set e serate ricercate: pensai semplicemente di portarmi ai Magazzini quegli artisti che passavano da Ibiza. Il primo che invitai a Milano fu un certo David Guetta – che all’epoca aveva mosso i primi passi al Pacha: funzionò molto più di quello che pensavo e capii che ci avevo visto giusto! E da allora con questa formula ho trascorso nove anni ai Magazzini Generali».

È stato più facile rilanciare i Magazzini Generali rispetto al Rolling Stone?
«Rispetto al Rolling Stone i Magazzini Generali hanno rappresentato una escalation. Io nasco come dj: col mondo del rock oggettivamente c’entravo poco…La mia forza però è che ho sempre cercato di capire cosa volesse la gente e gliela ho data: fiuto l’onda e poi la seguo, qualsiasi sia il genere. E soprattutto, per gestire un locale o uno spazio è importante che i conti tornino sempre: è un bel lavoro ma “se non si quadra” la festa finisce subito. Fare questo mestiere significa essere veri imprenditori».

I Magazzini Generali in effetti andavano bene quando hai inaugurato nel 2014 il Fabrique in via Fantoli: da dove allora la necessità di aprire questo locale?
«Quei disc-jokey che portavo da Ibiza ai Magazzini Generali, già nel corso dei primi 5 anni di attività, avevano sempre più aumentato i numeri di pubblico che il locale, per motivi di agibilità, cominciava a contenere la gente a fatica: gli artisti crescevano e il pubblico con loro. E chiaramente o avrei supportato gli artisti nella loro crescita al successo oppure si sarebbero rivolti altrove e mi sarei dovuto fare da parte…ma ritirarsi dopo tutta quella fatica sarebbe stato un vero peccato. Allora fui costretto a prendere in affitto all’occorrenza gli East End Studios di via Mecenate – quelli dove oggi girano “Masterchef”: quando arrivai alla necessità di utilizzare location sempre più grandi che potevano costarmi anche 30.000 € di affitto giornaliero per circa 10 eventi l’anno, sempre più pensai quanto mi convenisse piuttosto spendere soldi per avere uno spazio adeguato tutto mio. In città per importanti dj set o eventi indoor era rimasto solo l’Alcatraz: mancava comunque uno spazio dalla capienza di almeno 3000 persone. E uno degli spazi papabili, tra l’altro non molto distante da via Mecenate, era questo capannone dismesso – oggi il Fabrique – che avevo già avuto modo di conoscere…»

Quando?
«È una storia tutta italiana che non mi stancherò mai di raccontare (sorride): un altro luogo inconsapevolmente entrato nella mia vita quando ero giovanissimo e tornato sulla mia strada dopo molti anni, come nel caso del Rolling Stone. Dopo la terza media, come ho detto, il mio più grande desiderio era quello di lavorare nel mondo della musica. E ancora prima di diventare disc-jokey, venni a cercare lavoro proprio qui dove ci troviamo ora: questa era la sede della Venus Distribuzione, il più grande distributore di CD nei punti vendita in Italia per le case discografiche multinazionali più note all’epoca come la CGD, BMG, RCA, Columbia e Ricordi. Trovai lavoro come magazziniere…e questo dove ci troviamo era l’ufficio della persona che mi licenziò…(sorride)»

Immagino allora la soddisfazione di sedere in quel posto oggi…
«Oggi è un’altra storia. All’epoca, lo ammetto, ero un po’ scansafatiche: il lavoro fisico non faceva per me! E fu giusto così. Ero la disperazione della mia famiglia: “Ma Daniele?!? Non vuoi studiare, vai a fare il magazziniere…e ti licenziano pure?!? Ma che lavoro andrai a fare?!?” mi dicevano…»

Anche in quel caso nessuno poteva ancora lontanamente sospettare quanto anche quel primo approccio in via Fantoli fosse un segno del destino…Torniamo alla “scoperta” di quello che di lì a poco sarebbe diventato il Fabrique…
«Mi ritrovai in questo capannone, ex sede della Venus Distribuzione. Rivedendolo mi ricordai tutto, mi piacque e subito immaginai come trasformarlo, nonostante fosse veramente devastato: era chiuso e in disuso più o meno da 12 anni.  All’interno non c’era nulla, solo i muri perimetrali, in alcuni punti talmente danneggiati e rovinati da doverli abbattere e rifare: il rischio che si creassero crepature con le vibrazioni era alto. Ma ne avevo bisogno: lo acquistai e lo ricostruii quasi tutto in tempi record. I lavori cominciarono nel maggio del 2014 e il 18 settembre di quello stesso anno è stato inaugurato».

Vedendo lungo: come fu per il Rolling e per i Magazzini, anche il Fabrique ha rappresentato un ulteriore salto di qualità. E con un destino forse anche nel nome: perché hai chiamato questo nuovo spazio proprio “Fabrique”?
«Sicuramente c’è un riferimento al fatto che si tratta di una ex fabbrica. C’è poi un motivo di marketing ben preciso: mi sarebbe piaciuto un riferimento alla discoteca Fabric di Londra. Volevo proporre qui quel tipo di musica a tutti gli affezionati che conoscono quel mondo e insieme mantenere anche un riferimento all’elettronica, portandomi una fetta di pubblico dei Magazzini. E in più considerare che questa attività potesse vivere anche di affitti, feste aziendali o presentazioni di multinazionali: un’attività insomma che potesse sostenere tante iniziative, senza legarla solo ad un brand musicale. Ecco allora che mi viene in aiuto la lingua francese: qualche mese prima ero stato per la prima volta in vita mia a Parigi e me ne ero innamorato…E così mi venne “Fabrique”: un nome semplice che suona bene, ricco di riferimenti ed anche elegante, che piace anche alle aziende. Il tutto arricchito da un logo molto bello…et voilà!».

Un ambiente in effetti curato in ogni dettaglio: palco, pareti nere, due bar, un pavimento a tre livelli, un impianto audio e luci all’avanguardia. Non a caso il Fabrique ha vinto anche il premio ONstage Award 2015 come Miglior Club d’Italia. Qual è stato il bilancio del primo abbondante anno di attività, considerando anche il periodo EXPO appena passato?
«EXPO in sé, pur creando un’aspettativa molto alta, non ha modificato più di tanto le nostre previsioni. Francamente la situazione è stata più rosea delle aspettative: il bilancio è stato molto positivo. Anzi, scongiurando, credo che possa andare ancora meglio!»

A cosa devi questo ottimismo?
«Il Fabrique si è confermato il risultato non solo della mia esperienza gestionale ma anche di tutti i soci, promoter o presidenti di società importanti che rappresentano la musica dal vivo in Italia e che mi garantiscono una fetta di mercato. E chiaramente di un team che mi porto dietro da 15 anni: è molto importante per me avere collaboratori tanto affiatati. Tengo comunque a sottolineare che la persona che più di altri mi ha sostenuto e incoraggiato in questa avventura è stata mia moglie Fabiola».

Quanto ha influito tua moglie in questo progetto?
«Fabiola, che lavora in radio, è una vera professionista: quando va in onda, come nella vita, è sempre trascinante e solare. Io invece non ho un carattere sempre solare, trasmetto sempre quello che sento per istinto. E sempre per istinto, ogni qualvolta mi sono trovato davanti ad una scelta, mi sono portato dietro l’umore che avevo. In questo caso devo dire che il suo contagioso entusiasmo ha inciso molto nel rilanciare in modo tanto ambizioso e in pochi mesi questa nuova struttura. Soprattutto spingendomi ad investire in un momento nel quale, come tanti imprenditori, avrei invece legittimamente potuto scegliere di ridimensionare l’attività».

Notevole. Una regola d’oro che hai imparato in anni di attività in questo settore?
«Mai sottovalutare niente e nessuno. E non dare mai nulla per scontato: bisogna sempre riflettere bene».

“Mai sottovalutare niente e nessuno”: in effetti il Fabrique propone artisti di diverso genere. Qual è il criterio che adotti?
«Non solo rock o hip hop ma all the best! Bisogna uscire dalla logica del favorire un solo genere, anzi andare nella direzione contraria, in maniera assolutamente trasversale. Devo essere trasversale, altrimenti non riuscirei a rimanere in piedi: l’economia musicale non ti permette di poterti affezionare ad un genere specifico. Cerco di bilanciare, me l’ha insegnato il Rolling Stone: “il tempio del Rock” ha seguito una sola linea e ha chiuso i battenti anche per questo. E ora anche i Magazzini Generali stanno vivendo lo stesso problema con la musica elettronica; oggi presentare qualcosa di diverso ai Magazzini significa rischiare. E per non arrivare al punto di rischiare bisogna essere trasversali. Con intelligenza però, sapendo bene chi ospitare e cosa scegliere. Questo mestiere ripaga solo se riesci a scegliere gli artisti migliori».

Regola alla quale hai mantenuto fede perché dalla sua inaugurazione il calendario del Fabrique è stato ricco di nomi interessanti: da Billy Idol ai Club Dogo, dai Massive Attack a Luca Carboni e poi non dimentichiamo Noel Gallagher e Mika. C’è un evento che ricordi con maggior soddisfazione?
«Sicuramente Noel Gallagher. Mi sono piaciuti però molto anche Interpol e Chet Faker».

Chiara l’offerta del Fabrique. Che comunque dura fino a giugno: qual è la situazione durante il periodo estivo?
«D’estate a noi italiani piace stare all’aria aperta: da metà giugno a metà settembre il locale rimane chiuso. E il mio staff, come l’anno precedente, si sposta nella parte di arena al Forum di Assago, occupandosi della gestione del beverage per Live Nation e per due festival al Parco di Monza».

Nasci dj e oggi ti occupi di un’attività “a 360°”: come vivi tante responsabilità ancora giovane, pur con tanta esperienza?
«Paradossalmente lavorare in questo modo anziché preoccuparmi mi diverte. Se ti occupi di una cosa soltanto o segui un solo filone prima o poi il tuo lavoro finisce lì. E tu con lui. E invece bisogna sempre avere degli stimoli».

Proprio nessun rimpianto? Se quel tredicenne appena licenziato alla Venus Distribuzione potesse tornare indietro, col senno del poi, non avrebbe avuto la curiosità di tentare altro nella vita?
«Assolutamente no. Sono felice così. Anzi: sarò sempre felice così (sorride)».

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