«A mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, a scaglioni, escono. Plotoncini di tute blu, untuose d’olio di macchina, traversano il ponte della ferrovia, come soldati, e si ritagliano nel grigio». Non è proprio a zona 4, quella che Ottiero Ottieri descrive in La linea gotica, ma potrebbe esserlo: fa fede la celebre e bellissima fotografia di Mario De Biasi dove si vede la scaletta della stazione Porta Romana a metà degli anni Cinquanta, gremita all’alba dalle maestranze pendolari che si avviano alle fabbriche del quartiere.
Come sanno i lettori che ci seguono da tempo, il grande passato industriale della zona è un po’ una nostra felice ossessione: più di trenta Storie industriali raccontate negli anni e poi confluite nel libro con quel titolo a cura di Stefania Aleni e Vito Redaelli: Geloso radio e registratori, Lagomarsino macchine da calcolo, Lesa giradischi ed elettrodomestici, acciaierie Redaelli e naturalmente Tecnomasio Brown Boveri, il gigante dei motori elettrici e dei treni. E ancora, nel volume A sud dello Scalo Romana, altre storie e altre fabbriche per raccontare un mondo che non c’è più o che si è così trasformato da far dimenticare molti dettagli di come è successo.
Ecco, per raccontare la “deindustrializzazione” serviranno forse  altrettanta pazienza e ricerca dei testimoni. E una data di partenza, che per amor delle cifre tonde sarà 50 anni fa, l’anno in cui Milano segna il record di popolazione, quasi un milione e 800 mila persone, e il movimento operaio conquista con il contratto dei metalmeccanici l’inquadramento unico operai-impiegati, le 150 ore retribuite per l’aggiornamento culturale dei lavoratori, gli aumenti uguali per tutti.
In quell’anno l’”ascensore sociale” funziona ancora, insomma. E così bene che un ragazzo di 25 anni di buona famiglia e formazione cattolica come Aldo Rho, appena sposato con Giulia, diplomato al Collegio San Carlo e laureato in economia, ci sale e schiaccia il pulsante per “scendere”, là dove – sono in tanti allora a esserne certi – si sta facendo la Storia. «Prima casa, in affitto con la firma di garanzia dei genitori, in via Sile, davanti alla Trafileria Laminatoi meccanici. Là c’era la comunità parrocchiale di un prete operaio, Sandro Galbiati. E poco lontano la scuola media di via Oglio dove stavano partendo i primi corsi delle 150 ore. Ci ho insegnato per qualche anno, gli allievi erano tutte le avanguardie di fabbrica della zona, operai tutti maschi e quasi tutti meridionali, dei consigli di fabbrica di OM, Tibb, TLM, Geloso… A coordinare i corsi in zona era una biondina giovanissima, la futura segretaria generale della CGIL Susanna Camusso. In corso Lodi c’era la FLM dove si stava costruendo l’unità sindacale sulla spinta dei Consigli. La sezione locale del Pdup, di cui sono stato segretario cittadino, è arrivata a 120 iscritti, la più grande di Milano. In pratica ci chiamavano nelle fabbriche per portare il sostegno dei partiti alle loro lotte: al Tibb Brown Boveri contro il trasferimento di molte produzioni a Vittuone cancellando i posti di lavoro in zona, alla Lagomarsino per non chiudere di fronte alle innovazioni tecnologiche che stavano rendendo storia vecchia le calcolatrici meccaniche, come stava succedendo anche alla Geloso e alla Lesa con l’elettronica giapponese per radio, registratori e giradischi…».


Sono i primi scricchiolii sinistri della scossa sismica che in vent’anni, tra il ’71 e il ’91, cancella a Milano 53 posti di lavoro nell’industria su 100, ma in fabbrica arrivano un po’ coperti dal frastuono di altre discussioni: «Il sindacato dei Consigli che sperimenta la democrazia diretta dei lavoratori, la trasformazione dell’organizzazione produttiva dalla catena di montaggio alle isole, la riduzione d’orario a 40 ore». Fiumi di parole e idee pronunciati in assemblea e scritti nella stagione d’oro dei giornali di fabbrica come Il calcolatore della Lagomarsino di cui resta testimonianza nella raccolta della Fondazione Feltrinelli. Mentre su più ampia scala a fare i titoli sui giornali sono la crisi petrolifera, il terrorismo Br che per ora s’infiltra in fabbrica soprattutto a Milano Nord, il balzo del Pci alle amministrative di Milano nel ’75 con l’ingresso in Giunta. «Se provassimo a mettere in fila le ragioni della deindustrializzazione della zona – riflette adesso Rho, che dal ’76 ha lasciato per un periodo Milano per ritornare più recentemente a viverci in zona XXII Marzo, – metterei nell’ordine gli aggiornamenti tecnologici a cui la grande industria non ha saputo far fronte, le incertezze del cambio generazionale che in molte aziende padronali hanno portato a una catena di occasioni perdute, fallimenti e chiusure. E, sì, anche certe lotte operaie di allora venate di massimalismo, che in una fase delicatissima possono aver scoraggiato le riconversioni necessarie…».
Restano chilometri quadrati di concrete e metaforiche aree dismesse, certo. Ma anche occasioni di riconversione che se per i resti materiali sono diventate piccole e medie imprese, case da abitare, parchi, nuove aziende hi-tech, edifici pubblici e luoghi di socialità, per i resti immateriali e simbolici come l’ansia di partecipazione, i modelli di democrazia dal basso, i diritti collettivi e la soluzione progressista dei conflitti hanno ricostruito il tessuto della vita collettiva di zone e quartieri, le forme di integrazione e solidarietà, i giornali di zona, i momenti pubblici di aggregazione, il sociale e la politica locale. Perché il riuso innovativo delle idee a volte è un’opportunità che non ha meno fascino dell’archeologia dei mattoni.