La mattina del 20 novembre 1953, un venerdì nuvoloso ma senza nebbia, il diciottenne Ercole Pignatelli scende dal treno alla stazione Centrale dopo dodici ore di viaggio da Lecce, proprio nelle settimane in cui la metropoli in febbrile ricostruzione ritrova anche l’orgoglio di capitale culturale e artistica, con la più grande mostra del dopoguerra dedicata a Pablo Picasso, a Palazzo Reale. In tasca ha solo 7mila lire: «Non di più, mi avevano detto a casa, per essere sicuri che tornassi presto». Naturalmente non è andata così: Pignatelli, che oggi di anni ne sta per compiere 89 (il 18 aprile), a Milano da allora è sempre rimasto, visitando per il primo mese tutti i giorni la mostra di Picasso ma poi diventando quasi subito un talento riconosciuto della formidabile stagione artistica dell’avanguardia e lasciando nei decenni successivi tracce di sé non solo nelle collezioni private e nei musei, ma in due luoghi simbolo della città: nel 2011 il Palazzo della Regione, dove crea il grande affresco Germinazioni, nel 2015 il Palazzo dell’Arte alla Triennale, dove nell’arco di 26  giorni dipinge 120 metri quadrati di tela lungo l’intero perimetro della sala Impluvium in una clamorosa performance pubblica che il designer Fabio Novembre aveva immaginato e battezzato Le fatiche di Ercole.
Oggi, infine, Pignatelli di luoghi simbolo ne conquista un terzo, riallacciando idealmente il nastro del tempo a quel novembre 1953: dal 4 al 16 maggio nella Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale reinterpreterà Guernica, di nuovo con una performance pubblica, ricreando in una grande tela delle stesse proporzioni (349,3×776,6 cm) quel capolavoro picassiano che della mostra milanese era stato il fiore all’occhiello.

Di luoghi cittadini simbolo del percorso artistico e della formidabile energia creativa di Ercole Pignatelli ce n’è però ancora uno, altrettanto importante ma più discreto: il suo studio da ben 63 anni, in via Fogazzaro, zona 4, a comoda distanza da Piazzale Libia dove dal 1998 ha anche preso casa. Non è certo un segreto, lo studio, che è stato spesso aperto in occasioni di mostre personali e con artisti amici e molte volte fotografato dall’interno per riviste d’arte, ma resta lo stesso un mistero affascinante: fuori, una palazzina delle più anonime della via, mattoncini chiari e balconi con serramenti metallici molto anni Sessanta, la serranda di un garage accanto al portone, il nome Ercole Pignatelli solo sul citofono. Dentro, in un piano terra e seminterrato senza finestre ma ben illuminato solo da un grande lucernario che non concede paesaggio esterno, un grande loft tra wunderkammer e deposito di tele, crani di animali, object trouvé e legni fossili, quadri coloratissimi o bicromatici appesi e appoggiati ai muri, libri accatastati, divanetto e poltrone, latte di colori acrilici e pennelli, fasci di disegni e tele in corso d’opera, su un tavolo mezza dozzina di schizzi a colori sulla foto in bianco e nero di Guernica, studi per la performance di maggio («ma non ne scriva, ho già idee diverse, sarà una sorpresa»).


La didascalia del tutto potrebbe essere proprio una frase celebre di Picasso: “La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto”. Pignatelli spiega che «in tanti decenni a Milano non ho mai dimenticato e smesso di usare i colori che ricordo dall’infanzia a Lecce», e che «la libertà creativa non consente di stare nelle righe di uno stile o di una maniera». Per dire che la tecnica è fondamentale e nel suo caso consapevolissima ma è solo un mezzo, ti mette in mano una monografia recente intitolata Left drawings – con la mano sinistra: l’occasione è stata una brutta caduta che nel 2020, oltretutto in pieno Covid, per mesi gli ha temporaneamente impedito di usare la mano destra. Ha colto l’occasione per antologizzare mezzo secolo di sue poesie inedite (era stato incoraggiato a scriverle dal critico Raffaele Carrieri e da Eugenio Montale, che nel ’71 gli aveva chiesto di illustrare il suo Cinquante ans de poesie per Gallimard e Mondadori) aggiungendovi decine e decine di disegni a penna e colori acrilici e fluorescenti su carta, mirabilmente tracciati «con la mano sinistra».

La storia di come Pignatelli è approdato, nel 1961, in queste stanze che non ha più lasciato, è invece inestricabilmente legata al racconto degli esordi, e può ricominciare proprio dalla mostra del ’53 di Picasso alla sala delle Cariatidi, dove Guernica era arrivato con l’approvazione di Picasso dal Moma di New York, insieme ad altre sue 328 opere da molti musei internazionali. Il celebre e molto politico dipinto,  urlo di dolore antifranchista e antifascista ispirato al bombardamento italo-tedesco della città basca repubblicana nel 1937, donato alla Repubblica spagnola per l’Esposizione universale dello stesso anno e mandato oltreoceano nel ’39 perché non cadesse in mano nazista (e fosse probabilmente distrutto come “arte degenerata”), resterà esposto per un mese a Palazzo Reale di Milano, ancora segnato da incendi e bombardamenti. Dal giorno del suo arrivo, si è detto, il diciottenne Pignatelli gira per la mostra «finché i commessi non cacciano tutti via». Ma il meglio comincia a succedere dopo l’uscita, già il primo giorno: «Mi incammino per Milano, non sapendo dove andare a dormire quella sera, e lungo via Manzoni conto almeno venti gallerie d’arte. Cominciavo a sentirmi a casa – io credo nel destino – e compro il Corriere della Sera per spulciare le “affittanze”. Con un gettone chiamo il numero di Casa Gallini, 3 camere, 12 posti letto in via Formentini quinto piano, a Brera. La proprietaria mi dice che è al completo ma in quel momento vede la valigia fuori da una porta delle camere e si corregge: si è liberato un posto, venga…».

Di lì in poi, sembra un romanzo tra Bohéme e Miracolo a Milano, ma ambientato a Brera: «Lasciata sul letto la valigia, mi faccio un giro e scopro che c’è un sacco di movimento perché sono nel quartiere delle case di tolleranza, giro a sinistra e vado a sbattere contro il portone dell’Accademia, ovviamente chiusa. Seguo un rumore di risate e arrivo al Bar Jamaica, dove incontro quello che scoprirò essere Ettore Sordini, pittore e allievo di Lucio Fontana. Mi chiede, e tu chi sei? Dico: un pittore anch’io. Lui: vieni dentro che ti faccio conoscere uno importante, Quasimodo…». Da una conoscenza all’altra, si dipana un mondo: Fontana, Piero Manzoni, Dino Buzzati, Milena Milani che è la compagna di Carlo Cardazzo, gallerista. «Lui dice: se sei un pittore fammi vedere qualcosa. Qualche giorno dopo mi presento con un quadro fatto in fretta sul terrazzino della casa dove ho la camera. Ho solo tre colori, rosso nero e bianco. Li uso tutti, e a differenza dei pittori lombardi dell’epoca, che dipingevano solo la guerra, ci metto  il ricordo di Lecce, porto la luce. Cardazzo dice: l’hai fatto tu? Ti do diecimila lire se me ne fai degli altri».
Saltiamo qualche anno. Pignatelli è sempre sotto contratto con Cardazzo, che morirà nel 1963 dopo aver patrocinato il suo debutto alla galleria Cavallino di Venezia nel 1959. Il gallerista lo introduce ad Antonio Mazzotta, commercialista, impegnato in operazioni immobiliari nella ricostruzione e conterraneo di Pignatelli, ma soprattutto appassionato collezionista dal fiuto straordinario (Morandi, Sironi, Severini), che diventa suo sponsor principale. «Nel ’61 Mazzotta mi dice: è ora che ti fai uno studio tuo, noi stiamo costruendo in via Fogazzaro, c’è un grande pianterreno… . E come lo pago? Ti trovo tre clienti affidabili e ti anticipo quel che serve…»..

Siamo tornati a via Fogazzaro ed è ora di arrivare al prossimo appuntamento con Guernica (per una biografia più completa di Pignatelli si può leggere con grande divertimento Metamorphosis, a cura di Fortunato D’Amico, Editoriale Giorgio Mondadori, 2020): come Pignatelli ha chiesto, non facciamo spoiler descrivendo i bozzetti che ha sul tavolo, ma una domanda è indispensabile: quel dipinto è un simbolo universale di denuncia delle guerre e dei fascismi. Reinterpretandolo nella performance a Palazzo Reale del prossimo mese, non può non aver riflettuto sui tempi di guerra che, dall’Ucraina a Israele e Gaza al terrorismo, stiamo vivendo…. «Naturalmente è così. E ho pensato che confrontandomi con la Guernica di Picasso io devo dare speranza. Quella terribile rappresentazione della guerra è disperazione e morte. Io inserirò un’alba, non più bicromatica ma con del rosa. Un’alba primaverile che contrastando nel rispetto delle proporzioni gli elementi di catastrofe che sono parte integrante di quell’opera, apra a una possibilità. Fabio Novembre ha suggerito un titolo che al momento mi piace: “Memento amare semper”».