«Complesso è il mondo», ripeteva Gadda nell’Italia del dopoguerra. Effettivamente, varcando la soglia del civico 68 di via Tertulliano, non si può che riconoscergli una certa lungimiranza. Tra gli attori attivi negli spazi dell’ex stabilimento SAFA, balza agli occhi lo studio di design multidisciplinare Dotdotdot, inaugurato nel 2004.
«Sono passati vent’anni, eppure mi sembra ieri – esordisce uno dei fondatori, Alessandro Masserdotti -. Sono filosofo di formazione, Laura e Giovanna sono architette, mentre Fabrizio nasce come designer».

Seicento metri quadri di estensione, una quarantina tra professioniste e professionisti (ingegneri, informatici, progettisti di spazi…), energia creativa che sgorga da ogni dove: «E pensare che all’inizio di quest’avventura nessuno avrebbe scommesso di arrivare fin qui» (tra i riconoscimenti più recenti, la menzione speciale al Fuorisalone dello scorso aprile per l’ideazione del percorso espositivo Data Bugs. AI is a mirror, su rischi e opportunità dell’intelligenza artificiale generativa).
«Eravamo tutti appassionati di arte contemporanea, coltivata in maniere più o meno informali, quando abbiamo deciso di metterci in proprio. Descrivere cosa ci caratterizza? Difficile in poche parole: la volontà di progettare la tecnologia nella sua relazione diretta col mondo fisico per raccontare storie ed esperienze». L’uso della tecnologia come medium, dunque, soprattutto per dar vita ad ambienti interattivi per mostre, musei, showroom. «Siamo dei progettisti, e per noi alla fine di qualsiasi progetto ci devono essere i puntini di sospensione (da cui il nome dello studio, ndr): valgono come interazioni con l’umano, e il digitale è solo uno degli strumenti nella nostra cassetta degli attrezzi».

dotdotdot

Tra i frutti del lavoro di Alessandro e soci si riconosce sempre una dimensione fisica (che di norma ha a che vedere con allestimenti e interior design), eventualmente integrabile con espansioni digitali. Un approccio, questo, sufficientemente flessibile da poter essere declinato in ogni contesto: «Lavoriamo con istituzioni pubbliche, ma riceviamo anche numerose committenze private. Ci piace concentrarci sull’impatto sociale dell’imprenditoria, le grandi o piccole epopee industriali che coinvolgono famiglie, persone e sogni, tanto che i musei d’impresa stanno diventando una delle nostre specializzazioni». E poi ci sono le collaborazioni con importanti soggetti culturali, milanesi e non (dal Mudec allo spazio BASE, fino al Museo della Scienza e della Tecnologia): «È qui che emerge bene il concetto di interaction design, che ci ha visto anche vincitori del concorso per l’infrastruttura e le funzioni digitali della futura BEIC».

In carico a Dotdotdot rientra ad esempio la progettazione e gestione di app e sito della futura biblioteca, ma anche la realizzazione di apparati interattivi interni ed esterni, risultato di un’accurata mappatura del territorio, di un’analisi preliminare dell’utenza e delle migliori pratiche internazionali.
La stessa trasversalità di competenze si rinviene in OpenDot, la società in capo al FabLab aperto alla città e al territorio, da una decina d’anni ospitata negli stessi spazi di via Tertulliano. «Qui ci muoviamo su quattro assi (economia circolare, salute e cura, educazione e partecipazione civica, manifattura urbana), proponendoci come officina in cui potersi servire di macchine a controllo numerico, apparecchiature elettroniche e altri attrezzi di falegnameria tradizionale».
Si tratta di una sorta di centro di ricerca in cui parole come “prototipazione rapida” e “fabbricazione digitale” divengono realtà per centinaia di associati e startup. «In questo contenitore, il cuore delle attività riguarda in primo luogo le applicazioni nei campi della disabilità pediatrica; siamo da tanto tempo in contatto con la Fondazione Tog per inventare e costruire dispositivi di supporto destinati a persone con fragilità psico-fisiche».
Tagliato il nastro dei primi vent’anni, per non perdersi nell’ubiquità dei cambiamenti contemporanei nessuna massima fu più azzeccata di quanto si legge su una delle pareti dello studio: the only way out is through. Tecno-entusiasti o meno, il futuro passa da qui, con i tre punti rigorosamente sospesi.

 

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