La maschera e il volto di un protagonista del teatro italiano che risiede al Franco Parenti
Cinque decadi compiute lo scorso febbraio, quasi l’età del Teatro Franco Parenti, ormai da anni casa dell’istrionico attore umbro che ha lì il suo camerino privato, donatogli personalmente da Andrée Ruth Shammah. Proprio qui QUATTRO lo ha raggiunto al termine delle date de Scopate sentimentali, per una chiacchierata in occasione del traguardo del mezzo secolo.
Da giovane ti saresti immaginato così come sei oggi, al raggiungimento dei tuoi 50 anni?
«Per uno nato come me a metà anni ’70 a Ponte San Giovanni, modesto borgo della provincia di Perugia, c’era più che altro il presente a cui pensare, il bisogno di campare. “Se vuoi restare a casa vai a lavorare con papà” mi diceva mia madre. Certo un paese costituito da un canile, un centro commerciale e una chiesa è stato uno stimolo a pretendere che la vita non fosse solo quello che vedevo. Studio e letture sono stati la mia prima via d’uscita: i libri erano un modo per evadere. Non saprei esattamente da cosa, forse dalla povertà o da un disagevole senso di confronto. In quel periodo sentivo talmente forte la necessità di trovare me stesso che non avevo ancora tempo di fantasticare sul futuro».
In un tuo famoso tema scrivesti che da grande avresti voluto essere stilista, o papa o attore. Poi hai scelto quest’ultimo per essere tutti e tre. Quando hai capito che avresti fatto questo mestiere per vivere?
«Inizialmente fare teatro per me ha significato più resistere che riuscire a vivere. Eduardo d’altra parte sosteneva che “a teatro deve fare un po’ freddo…” Finché un giorno, intorno ai 35 anni, quando in un momento di necessità sono riuscito a comprare i termosifoni a mia madre, ho fatto capire a lei e a me stesso che il mio mestiere aveva un senso anche economicamente. Lei, semplice infermiera, avrà finalmente pensato: “Non so perché gli diano soldi perché si diverta in scena, ma mio figlio evidentemente lavora”. Anche se di fatto ho cominciato a sopravvivere davvero solo dopo aver girato i primi film. L’importante è avere sempre uno scopo».
Nel 2009 autore con Stefania De Santis de Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche, di cui sei anche regista e interprete nel ruolo di Amleto. Spettacolo che ti consacra tra gli attori e autori di teatro italiani più stimati da critica e pubblico. Poi diventerà Amleto², che riproporrai ancora qui a dicembre. È allora che hai cominciato a fare i conti con la popolarità?
«Amleto² andò talmente bene da essere sommerso per la prima volta, alla fine di ogni replica, da applausi scroscianti, da rockstar. Poi chiuso il sipario passavo un paio d’ore a decomprimermi. E piangere. Non mi capacitavo. Puntualmente la mattina dopo andavo a parlarne con Andrée e le chiedevo “Perché sto male se è stato un successo?” “Perché ti senti solo”, rispondeva lei. Sì, speravo che mi sarei sentito meno solo a questo mondo il giorno che fossi diventato famoso. Invece la popolarità non è mai riuscita a smorzare il mio senso di solitudine».
“L’unica certezza è che l’arte non risolve la vita.
Tutti ambiamo a essere felici il più possibile,
ma la felicità è un capolavoro che dura un attimo”
Un problema più esistenziale o artistico?
«Tutto ha origine dallo scaturire di quella forza interiore necessaria ad affermare sé stessi. Fino al punto che senti di far specie da solo. Soprattutto se vieni da anni in cui hai creduto solo tu nelle tue possibilità. L’unica certezza è che l’arte non risolve la vita. E neanche il pubblico. A me piace paragonarmi alla Cappella Sistina che esiste senza curarsi di quelli che stanno a guardarla. Io, nel tentativo di sfiorare ogni volta in scena l’opera d’arte perfetta, mi sento solo come la Cappella Sistina, ma senza mai sperare di raggiungere quel livello… quindi capisci la tragedia?! La verità è che tutti ambiamo a essere felici il più possibile, ma la felicità è un capolavoro che dura un attimo».
Molti dei tuoi più grandi successi sono legati al Teatro Franco Parenti, da Don Giovanni a Skianto, passando per Favola e Casa di bambola, diretto dalla Shammah. Cosa rappresenta per te questo teatro?
«È la mia casa, non solo artistica. Andrée è stata la prima a vedere in me quello che ero e che sarei potuto diventare. Dopo il primo spettacolo mi ha regalato un intero camerino del suo teatro dicendomi “Questo è tuo, la chiave la porti via tu”. Qualsiasi consiglio di Andrée, che lo comprenda o no, per me è sempre un “sì”. Ho con lei un tipo di rapporto che ho con pochi altri nell’ambiente, ad esempio con Marco Bellocchio».
In questi anni di attività teatrale sei stato Orfeo, Danton, Perceval, Satana, Odino, Woyzeck, Amleto, Mrs Fairytale, Cupido e Don Giovanni. C’è un personaggio tra questi che ha un’anima vicina a Filippo?
«Qualsiasi scelta sarebbe riduttiva. Mi rispecchio più in un divenire, come ogni essere umano costituito dalla stessa manciata di molecole. L’attore è uno strumento e quello mi sento. In accordo al concetto, citando Schopenhauer, che la vita è rappresentazione.
Quando fai teatro impari proprio come ci si rappresenta nella realtà, cerchi di cogliere il sottotesto di ciascun individuo, studiandolo e diventando specchio per far succedere la vita. Il teatro senza la vita è mera rappresentazione. Pasolini definisce la società priva del sacro come “un’orgia grigia, con i baci di cenere”. Quindi chi sono? Sono fuoco (sorride sornione)».
“Gli antichi greci sostenevano che le emozioni non nascono dagli esseri umani
ma che gli esseri umani siano attraversati dalle emozioni.
Persino Pasolini è morto incarnando la sua stessa poesia”
Su di te più verità o leggende?
«Dipende a cosa ti riferisci…La balbuzie? Quella è vera. Meno che sia così “rock” nel privato, come può sembrare a chi mi applaude a scena aperta. Bisogna mantenere un equilibrio: ovvio che se accendi una candela da entrambi i lati si consuma subito. E io per consumarmi in scena vado a letto presto, mangio bene, non bevo alcool. Faccio parte di questa nuova tipologia di attori, diciamo meno maledetti».
Non maledetto ma comunque un mito per tanti giovani attori e spettatori: i miti di Filippo Timi chi sono?
«Carmelo Bene, Francis Bacon, Majakovskij, Raffaella Carrà, Amy Winehouse e Maria Zinno, che ha lavorato qui ed è mancata lo scorso aprile. Il mio vero mito però è mia madre. Quella che da giovane, prima di partorire me, ha fatto una rivoluzione – cosa che purtroppo ho scoperto solo tempo dopo, perché in quegli anni in cui il ribelle ero io lei, diventata madre, aveva perso quel fuoco. Ora in maturità è come se riuscissi a intravedere meglio in lei quella ragazza rivoluzionaria, questo è un dono».
“Il modo di sentirsi appagata di mia madre, da infermiera, è il momento in cui riesce a dare una brutta notizia in maniera amorosa, nel mio caso infiammare gli animi. Però qualcosa ci unisce”
A proposito di doni, quale talento si è manifestato per primo in te?
«Ogni forma di arte ha nutrito l’altra. Certo non ho scritto le mie prime pagine con l’idea di pubblicarle. Chi scrive lo fa prima di tutto per esigenza, poi si può avere la buona sorte di venir pubblicato. O di essere notato, quando si tratta di un provino per un film o uno spettacolo, indipendentemente dalle proprie capacità. Ho imparato che il tuo momento arriva se deve arrivare. Quello che chiamiamo genio, che meglio dovrebbe dirsi attitudine o disperazione, è l’1%. Il restante 99% è resistenza a quella disperazione. Ancora studio tanto, è quello che mi mantiene in vita, altrimenti oggi non sarei qui».
“Sento da artista la missione di risarcire tutti coloro che sono venuti prima di me,
riprendendo idealmente un filo spezzato. Noi vivi impersoniamo l’immortalità dei defunti”
Il tuo primo libro è Tuttalpiù muoio (2006) con Edoardo Albinati, romanzo di formazione parzialmente autobiografico. L’ultimo invece è Marilyn (2023). Perché Marilyn?
«Perché è uno di quei soggetti che io, da artista, sento di dover risarcire. Marilyn è stata una donna intelligente e capace, la prima ad aver ottenuto contratti da attrice come nessuna a Hollywood. Ed è assurdo che per la maggior parte della vulgata venga considerata la bionda svampita che si concedeva ai produttori. E dopo di lei c’è da risarcire Pasolini e Oscar Wilde, morto vedendosi ritirare tutti i libri dal mercato e convinto di scomparire dalla storia, Tenco e Van Gogh, personalità che hanno dato tantissimo al mondo, ma che il mondo non ha considerato come avrebbe dovuto. Sento da artista la missione di risarcire tutti loro, riprendendo idealmente un filo spezzato. Noi vivi impersoniamo l’immortalità dei defunti: finché ricorderò il suo sorriso anche mia madre sarà immortale».
Il cambiamento è stata una tua cifra artistica. Principio valido sempre?
«Esistono diversi percorsi nella vita di un uomo e di un artista. Nel mio caso evidentemente c’è stata quella del cambiamento, però non esiste la strada “giusta”. Fare arte non è strategia. Non si conquista l’Oscar con “l’idea giusta”. Un riconoscimento viene perché dentro di te hai saputo creare qualcosa che ti ha permesso di superare un’impasse grazie al sudore delle tue esperienze. A chiunque entra in scena con me ripeto ogni volta: “Sei unico, la tua storia ti rende unico”».
“Ognuno è già speciale per il suo stesso percorso, non deve diventare altro”
In conclusione cito uno dei tuoi autori preferiti, Deleuze: “In amore l’essenza s’incarna anzitutto nelle leggi della menzogna”. Vale anche per il teatro, che è uno dei tuoi amori?
«Ti rispondo con una citazione di Jean Cocteau: “Sono un bugiardo che dice sempre la verità” (sorride)».
Luca Cecchelli
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