Liù ha ucciso Turandot

di Giovanni Chiara – Ed. QUATTRO – pag. 186

Le storie e la storia di un Puccini che si innamorava delle proprie eroine
pag. 186

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Coloro che si recarono al Teatro alla Scala la sera del 26 aprile 1926 lo fecero in preda a una comprensibile emozione. Quelle che avrebbero ascoltato sarebbero state le ultime note scritte da Giacomo Puccini.
L’opera non aveva finale, e Toscanini, dopo la morte di Liù, depose la bacchetta e si rivolse al pubblico per dire: “Qui finisce l’opera rimasta incompiuta per la morte del maestro”.
La realtà però era diversa. Puccini, semplicemente, non era riuscito a concludere non per mancanza di tempo, ma perché perfino nel regno della implausibilità che è l’opera lirica non gli poteva sembrare plausibile che Calaf, per quanto preso dai vortici impetuosi della passione, ignorasse il suicidio di Liù per gettarsi fra le braccia della principessa sanguinaria, ammansita al punto da affogare il proprio gelo in un ribollire d’amore.
Fu l’unica volta che l’opera risultò incompiuta. Dopo quella sera Turandot ebbe il finale messo insieme da Franco Alfano, cioè l’irritante baccanale fracassone che manda a schiantare le melodie ripescate dagli atti precedenti in un caos che mai s’era visto in Puccini.
Ma il vero finale di Turandot è la bacchetta posata da Toscanini, perché il grande direttore probabilmente comprese che Puccini non aveva terminato l’opera in quanto il personaggio della piccola e insignificante Liù, morendo suicida per non tradire l’amato, aveva ucciso Turandot privandola di un epilogo salvifico e fasullo, e perciò dell’amore.

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