Il ricordo del grande fotografo a 9 anni dalla scomparsa

 

Cesare Montalbetti, in arte Caesar Monti ©Ph Daniela Zedda per la campagna “Unione Sarda”, Cagliari, 2000

Caesar Monti, al secolo Cesare Montalbetti, fratello di Pietruccio dei Dik Dik, è stato fotografo e regista di fama internazionale, legando la sua firma non solo ad alcune delle più popolari copertine di LP della discografia italiana, ma anche al campo della pubblicità e dell’arte visiva. Il suo storico e frequentato atelier si trovava in viale Montenero. Cosa resta del suo nome a quasi un decennio dalla morte? Lo abbiamo chiesto alla figlia Alice.

Un ricordo di tuo padre, prima dell’artista: che persona era? «Difficile scindere il papà dall’artista con obbiettività, soprattutto per una figlia che non ha seguito le sue orme. Era un po’ burbero e indurito dalla vita per certi versi, ma di estrema sensibilità e acuta intelligenza. Sempre attento, molto presente. Mi aiutava spesso nello studio, era paziente, adorava la storia. Molto generoso, ma allo stesso tempo ‘faticoso’. Geniale dal punto vista artistico quanto esigente. Da sé stesso in primis e poi da me. Difficile dirgli di no – un po’ anche per la stazza! – una condanna per una figlia unica: come nelle migliori famiglie non è mancata anche conflittualità. Negli ultimi tempi però avevamo raggiunto un rapporto di meravigliosa confidenza. Era di mentalità aperta, si poteva parlare di tutto. Non aveva paura della morte, ma di soffrire e peggio far soffrire. Io l’ho aiutato ad andarsene: un atto d’amore infinito e un ricordo prezioso».


Che ricordi hai, diretti e indiretti, degli anni in viale Montenero, quando aveva il suo studio sopra l’ex cinema d’essai Astoria?
«Si stabilì in viale Montenero verso metà anni ’60, quando cominciò a lavorare alla Ricordi per realizzare copertine di dischi. Il suo atelier era dentro casa nostra, abitazione molto particolare – chi ci è stato se la ricorda bene. Era molto spaziosa, con un immenso salone dove si posava e un’altra zona, quella in cui alloggiavamo, a cui si accedeva attraverso un grandissimo oblò. I pavimenti erano disegnati e dipinti da mia madre, Vanda Spinello, artista attiva ancora oggi e sua compagna anche nel lavoro. Ricordi? Spesso e volentieri sono finita in tanti scatti insieme a musicisti famosi! Il primo di cui ho memoria è Pino Daniele, dolce e riservato. All’epoca, quando la musica nasceva anche attraverso le immagini, non si veniva solo per il servizio fotografico: gli artisti potevano soggiornare per settimane, si viveva tutti insieme. Erano anni di vita comunitaria: mio padre non si limitava a essere fotografo, si relazionava a 360° con loro, un approccio molto differente da oggi».

Lucio Battisti, Il Mio Canto Libero ©Ph Caesar Monti, 1972. Scatto eseguito nell’atelier di viale Montenero 55. Tra le mani (e piedi, sul retro) della cover anche quelle dello stesso Lucio Battisti e del fratello Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik.

Vuole la leggenda che il nome d’arte di Caesar Monti fu suggerito da Lucio Battisti, con lo scopo di allontanare possibili accuse di nepotismo. Da allora copertine di numerosi LP portano la sua firma. Tuo padre ti ha raccontato del loro rapporto?
«Conobbe Battisti nel Natale del 1964, quando ancora abitava con suo fratello Pietruccio nella casa di via Stendhal. Battisti gli disse “Se mi farai delle foto vedrai che un giorno saranno celebri”. E coniò quello pseudonimo con cui poi firmò molte delle prime copertine. C’era un bel feeling tra di loro, lavorarono insieme fino all’album Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera (1976)».

La sua fu una professione nata per vocazione personale?
«All’epoca si viveva molto il quartiere e nel suo abitavano tanti artisti talentuosi che hanno stimolato il suo spirito creativo. Papà era curioso, gli piaceva catturare l’anima delle persone. Il suo interesse per la fotografia risale credo ai tempi del servizio militare. Certo, come nel caso di mia madre, non ha “respirato l’arte in famiglia”: i miei nonni venivano da tutt’altra estrazione. Cosa che probabilmente ha generato in lui ancora di più quella voglia di evolversi. Oppure si può semplicemente ammettere che nascano dei geni, così li ho sempre reputati. Una coppia perfetta, fortunati a trovarsi anche a livello creativo. Creativi che determinarono una rivoluzione dell’immagine in ambito musicale. E certamente in un periodo storico caratterizzato dalla voglia di ricerca, cosa che ha agevolato l’avvio di tale carriera».

Di fatto tuo padre fu autodidatta?
«Lavorava di giorno e frequentava le serali per laurearsi in ingegneria. È stato autodidatta nella fotografia e nella stampa a mano, passava le notti in camera oscura, affinando l’abilità nell’indirizzare gli acidi. Il suo effetto sgranato è diventato famosissimo. Un tocco che caratterizza molte sue fotografie, per questo oggi complicate da riprodurre o ristampare. Come conferma anche Guido Harari, assistente che ha imparato molto da papà e che ha digitalizzato tutto il suo immenso archivio fotografico perché non andasse perduto».

Pino Daniele, Nero a metà ©Ph Caesar Monti, 1980. Citato dalla figlia Alice Montalbetti, tra i suoi primi ricordi “fotografici” nello studio del padre in viale Montenero 55.

Mai pensato a una fondazione per valorizzare questo materiale, magari proprio in viale Montenero?
«Purtroppo l’abitazione-atelier è stata abbandonata a metà degli anni ’90 quando papà si è trasferito in Toscana, lavorando per pubblicità ed eventi culturali. Mi sarebbe piaciuto utilizzarla come archivio, oppure sede di iniziative didattico-culturali, mettendo a disposizione quello che ho per giovani artisti. Mio padre era un professionista molto disponibile per le nuove generazioni, ha insegnato, tenuto molti convegni, cercava di dare speranza e una visione sul futuro di questa arte. Dopo la sua morte ho sempre cercato di far rivivere il suo materiale in questo senso. Lui a riguardo mi ha sempre detto: “Se ti è utile sfruttalo, se non lo è o deve diventare un peso, brucialo! Brucia tutto di me!” E invece tante sarebbero idee e progettualità da poter mettere ancora in atto».

Tanti gli ambiti a cui si è dedicato, dalla fotografia all’arte, alla pubblicità. Lui come si definiva?
«Non fotografo. A lui piaceva definirsi “poeta dell’immagine”. A prescindere dallo strumento a disposizione – magari anche una macchina fotografica di poco valore – sapeva sintetizzare in uno scatto storie, mondi e vite».

Oggi senti degnamente ricordato e valorizzato Caesar Monti per l’importanza che merita?
«Nonostante venga talvolta citato da giornalisti per le sue iconiche copertine, noto che l’interesse per la sua figura si circoscriva soprattutto lì. Così come sento grande stima da parte di molti suoi colleghi, che però non contribuiscono a dare più di tanto memoria e merito a chi è stato uno dei geni dell’immagine: anche questo ha determinato meno attenzione nei suoi confronti. E invece vedo oggi molte sue creazioni e intuizioni di almeno 45 anni fa tornare in voga in tanti settori, non solo quello discografico. Un precursore e sperimentatore che meriterebbe di essere conosciuto più apertamente di quanto non sia stato riconosciuto in vita. Non significa cercare gloria – nella sua carriera ha vinto numerosi premi che non ha neanche ritirato – ma il problema, tipico di questo periodo storico, è che tutto rimane un po’ superficiale. E mio padre non era un uomo superficiale. A volte penso che avrebbe sofferto questo presente: per certi versi la sua perdita è stata anche generazionale. Tanti avrebbero dovuto e ancora dovrebbero conoscerlo. Credo saprebbe ancora ispirare tanti giovani artisti all’idea di poter e saper vivere di creatività, come un tempo».

Luca Cecchelli
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