Il grande critico musicale Enzo Gentile ricorda Jannacci in un libro e non solo
A più di un decennio dalla scomparsa di Enzo Jannacci (2013-2023) QUATTRO ha voluto commemorare uno dei personaggi più popolari della zona attraverso la preziosa testimonianza del giornalista Enzo Gentile, storico amico e compagno di strada, nonché coautore insieme al figlio, Paolo Jannacci, del recente volume biografico Ecco tutto qui (Hoepli).
“Maestro dell’iperbole e dell’ironia, Jannacci è stato uno dei maggiori protagonisti della scena musicale italiana e molto di più, offrendosi al pubblico dagli anni Cinquanta in poi, attraverso mille lavori e innumerevoli sfumature”. Aveva predilezione per uno tra i tanti settori in cui ha operato?
«Teneva a presentarsi prima di tutto come medico. La sua professione, a cui ha dedicato anni di studio e missione, era ciò di cui andava più fiero. Le attività di cantautore e cabarettista sono sempre state un dignitosissimo riempitivo della sua prima vocazione, aiutare le persone».
“Un quadro e una riflessione sulla vicenda umana, le opere e il lascito culturale di un artista unico e irripetibile nella memoria dei più, ma per molti altri prima di tutto un medico,
con studio in via Sismondi.
Anch’io sono stato suo assistito della mutua, all’epoca S.A.U.B. ”
Rispetto alla sua dimensione artistica, come si legge nel libro, Enrico Intra ha individuato come elemento caratterizzante di Jannacci l’improvvisazione, arte comune a jazz e comicità.
«Concordo. Come nel cabaret c’è un canovaccio, così i musicisti jazz hanno una traccia su cui improvvisare. E lui estendeva l’improvvisazione a tutto, persino ai testi delle canzoni. Avrò sentito almeno 20 versioni diverse di Quelli che…(1975)! Paolo, che l’ha suonata centinaia di volte, conferma che i versi potevano essere aggiornati con personaggi e fatti di cronaca. La genialità sta nella struttura: persino Vasco Rossi ha riconosciuto un debito nei confronti di questo stile».
“Il titolo del libro cita un brano meno conosciuto, ma molto riuscito per spiegare bene lo sforzo della nostra ricerca.
È l’occasione per riscoprire, tra i suoi classici, un repertorio meno eseguito, ma di grande valore”
Impegnato a tempo pieno su più fronti ha però prodotto una quantità incredibile di materiali. Come spieghi tanta prolificità in una vita letteralmente “esagerata”?
«Ce lo siamo chiesti noi per primi scrivendo il libro…Tra gli anni ’50 e ’70 dalla sua c’è certamente giovinezza, entusiasmo e curiosità. Era inoltre, credo, molto abile nell’organizzare il suo tempo. Quando andava in tournée oppure nelle serate al Derby durante l’università o la specializzazione, fino a poco prima di esibirsi se ne stava a studiare i suoi testi di medicina. Poi fatto il suo numero tornava a studiare. A dispetto di quello che si potrebbe pensare “cazzeggiava” poco. E anche dalle nottate nelle quali tirava tardi con i suoi musicisti o amici cabarettisti ricavava stramberie assortite che poi diventavano titoli, strofe, ritornelli o battute per altre canzoni e sketch».
“Cochi Ponzoni racconta spesso di cene con Enzo e protagonisti del Derby a casa di sua madre a mangiare la cassoeula e a tirar mattina. Amicizia e solidità dei rapporti personali sono alla base della sua carriera perché
– questo lo dicono tutti, dal suo primario al maestro di karatè – aveva grandissima empatia”
Stando a capitoli discograficamente “seriosi” penso a un brano come Gli Zingari (1968). Da dove nasce e si sviluppa tanta umanità per i più sfortunati?
«In primis dall’educazione del padre Giuseppe. Nacque in una famiglia sicuramente dignitosa ma in una zona all’epoca non ricca e frequentava persone non agiate. E il successo l’ha conosciuto solo dopo la famosa Vengo anch’io (1968), cioè quindici anni dopo aver cominciato a suonare: una conquista sudata dopo tanta gavetta. In tutto quel tempo niente bella vita, continuava a fare il medico vedendo gente star male, per motivi di salute o economici. Erano sì gli anni del boom ma, come lui stesso ha cantato nella celebre El portava i scarp del tennis (1964), non lo erano per tutti. Anche quella è una sua chiave: riportare storie come fosse cronaca».
“Non è un caso che La Casa dell’accoglienza Enzo Jannacci in viale Ortles 69 che ospita tutto l’anno persone senza fissa dimora, struttura di natura pubblica più grande d’Europa,
porti il suo nome”
Quest’ultima canzone è contenuta nell’album “La Milano di Enzo Jannacci” (1964), città spesso presente nei suoi brani, citata per nomi, piazze e vie, contribuendo a esportare anche il dialetto milanese. A tal proposito il 26 settembre 2015 il Comune di Milano ha inaugurato il “Percorso Jannacci”, nato da un’iniziativa della commissione cultura del Consiglio di Zona 4 con cinque targhe che rimandano alla sua opera di cantautore.
«La milanesità espressa da Jannacci non si ritrova in nessun altro artista contemporaneo. Nelle sue canzoni evoca tutta Milano con precisione, da San Vittore a Rogoredo passando per Piazzale Martini, comprese linee dei tram o treni. Non è un espediente professionale ma parte integrante della sua vita, era autenticamente radicato sul territorio. E non a caso lo scatto di copertina del libro lo ritrae sul Duomo, con la città sullo sfondo».
“Renzo Arbore ha dichiarato quanto Jannacci con le sue canzoni gli abbia fatto imparare ad amare Milano,
prima ancora di arrivarci”
Cosa ricordi della sua quotidianità in zona?
«La sua ultima residenza è stata in viale Romagna, poco distante dalla mia. Poteva capitare che ci si incontrasse quando usciva in bicicletta. In quelle occasioni c’era sempre gente che lo riconosceva. All’epoca non c’era il trend del selfie ma chi lo fermava per una battuta, un parere sul Milan, o per parlare di musica. Era molto generoso e questa disponibilità mi ha sempre colpito molto. I suoi problemi li avrà anche avuti, ma non li portava in piazza: sempre il sorriso e la voglia di ridere, anche di sé. Era molto autoironico. Non era assolutamente divo, anzi. E come dimenticare la sua granitica stretta di mano? Ho sempre pensato che quelle fossero le stesse dita con cui suonava e operava».
Veniamo da un anniversario ricco di celebrazioni con il vostro libro, un documentario e tante manifestazioni: oggi quanto e come senti ricordato Jannacci?
«Tra i colleghi gode di grande stima, da Paolo Conte, che lo considera il più grande cantautore italiano, al citato Renzo Arbore, fino a generazioni più recenti come J-Ax. Mentre con Paolo, portando ancora per l’Italia presentazioni del libro, ogni volta ci rendiamo conto di quanto canzoni e momenti di testimonianze rievochino in modo impressionante il suo spirito. Nell’ascoltare il suo repertorio, dai brani con Fo, Gaber e Valdi passando per Vincenzina e la fabbrica (1974) fino a La fotografia (1991) la sua vibrante verve continua a esercitare impatto e grande fascinazione su un pubblico di adulti con figli al seguito. C’è un’attualità forte e coinvolgente nella sua produzione, a tanti livelli. Lui si chiedeva a volte se quei pezzi inizialmente scritti per sé avessero funzionato…direi proprio di sì. Quello che mi manca di più? Le sue interpretazioni, nonostante le sempre emozionanti esecuzioni del pur bravissimo Paolo. È proprio vero: “Per fare certe cose, ci vuole orecchio” (sorride)».
Luca Cecchelli
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