Dopo i precedenti articoli su Gianni Sassi lo scorso anno in occasione dell’anniversario della scomparsa, QUATTRO ha intervistato un altro grande protagonista di quella storia, nel tentativo di aggiungere un’altra voce nella ricostruzione del quadro culturale ordito dallo stesso Sassi, soprattutto in zona.
Anticipandoci i preparativi in atto per la mostra “Gianni Sassi al Lucky Bar”, Aldo Colonetti, filosofo, storico e teorico dell’arte, del design e dell’architettura, esordisce ricordando proprio quel locale: «Negli anni ’80 questo quartiere è stato, oserei dire, il centro del mondo per diverse arti. E il Lucky Bar, all’angolo tra via Tito Livio e viale Umbria, il suo fulcro. Solitamente dopo il lavoro Gianni veniva dagli uffici in via Caposile per andarci a fare un aperitivo. Era più di un bar, un vero luogo di cultura. Guardandolo dalla strada non avresti pensato di poterci incontrare Alberto Capatti, Umberto Eco, John Cage, Brodsky o Ginsberg durante vere e proprie serate di poesia. E a pochi passi si continuava alla trattoria Masuelli» (vedi QUATTRO, aprile 2024).
Un territorio che ha il pregio di conservare una storia unica, non solo di zona o di Milano, ma italiana: «Quella di un gruppo di intellettuali che ho avuto la fortuna di intercettare intorno al 1982. Il primo fu proprio Gianni, alla Biennale della Grafica di Pubblica Utilità. Era un uomo apparentemente burbero, ma generoso e militante in senso alto, non politico. Dava del “lei” a tutti: disciplina, rigore e appuntamenti anche per gli amici. Il grafico pubblicitario credo più noto e pagato in Italia».
Quando Sassi ha capito che la cultura poteva essere impresa? «Intrapresa è stata la sua visione: una cooperativa di promozione culturale nata da un nucleo di colti esperti, ma soprattutto gestita dalla sua volontà di coordinare, a seguito di esperienze importanti sul piano dell’economia, un sistema legato alla cultura. E proprio da questa zona di Milano, nella quale Gianni è sempre rimasto, si è proiettato nel mondo: Intrapresa è divenuto l’elemento propulsore da cui hanno visto la luce tanti progetti come La Gola».
In un recente articolo Michele Serra ha riconosciuto a La Gola, prima rivista mensile a parlare del cibo come elemento culturale, una matrice avanguardistica rispetto all’evoluzione che avrebbe poi portato a Slow Food. «La Gola non era certo Slow Food – spiega Colonetti – ma è stato il primo strumento editoriale, versione tabloid, in cui il cibo veniva trattato come espressione culturale rilevante, non solo sostentamento. La Gola rappresenta l’origine di un movimento che da allora ha sviluppato il nuovo sistema del food italiano. E del vino». Parlando di vino, proprio a seguito della crisi del metanolo e la conseguente frattura con alcuni piccoli produttori nonché investitori, cominciò a metà anni ’80 il declino della rivista: «Trovavamo inserzionisti pubblicitari più per relazioni, le principali economie però venivano dalle vendite, sebbene anche allora non straordinarie e da progetti come le mostre di rilancio per la grande distribuzione. In particolare Gianni propose alla Coop, in qualità di consulente per la comunicazione, le due esposizioni “Cosa ti sei messo in testa?” e “La bellezza del corpo” – dedicata alla mutazione del canone estetico sulla base dell’alimentazione nell’arco di otto decenni».
Le copertine de La Gola coglievano particolari di pietanze e mense tratti dalla grande pittura italiana e francese del ‘600: «L’ispirazione veniva anche dalla Francia – non è un caso che, proprio per ragioni storiche e politiche sia nata lì la guida Michelin. Seguendo questa concezione del cibo come “nutrimento culturale”, la rivista, dopo Slow Food, ha continuato a ispirare progetti come Eataly ed Expo 2015 – qui la figura di riferimento riguardo tale visione è stato il filosofo Salvatore Veca – fino alla prima e unica accademia al mondo di enogastronomia a Pollenzo, opera di Carlin Petrini».
Una vicenda che si intreccia tra intuizioni, preveggenza e modelli molto rigorosi: «Non era una rivista di ricette o per suggerire come bere bene. Si trattava di un’impresa culturale, prima ancora che alla cultura si desse un valore economico. Attorno a noi si sono raccolti grandi designer e architetti, tutte personalità dall’atteggiamento progressista e aperto a qualsiasi orientamento, senza prevaricazioni ideologiche. Molti, quando l’abbiamo chiusa, hanno tentato di riprenderla: già dopo il 1988 per alcuni anni continuò a esistere sotto altre guide, ma la fase più importante rimane quella di Gianni. Oggi sono tutti esperti, allora concepire quello che si sarebbe chiamato poi food in quel modo era avanguardia».
Perché non scrivere un libro su queste esperienze? «Io? Ho solo avuto la fortuna di trovarmi al momento giusto nel posto giusto (sorride). A cominciare dalla possibilità di frequentare la facoltà di filosofia in Statale e assistere alle lezioni di Geymonat, Dal Pra ed Enzo Paci. Mi sono iscritto a filosofia per diventare giornalista, mentre studiavo ho collaborato con Panorama, Il Giorno e anche Il Dialogo, poi grazie all’amicizia con il mio maestro Gillo Dorfles ho preso altre strade. L’incontro con Gianni Sassi? Mi ha insegnato che la cultura è organizzazione, non pensiero astratto e sono stato testimone di progetti incredibili, come l’etichetta discografica Cramps. Tutte le mie attività sono state in larga parte frutto di quegli incontri, grazie ai quali ho avuto la possibilità di imparare, approfondire diverse discipline e soprattutto lavorare. Realtà fortuite che ho solo umilmente capitalizzato, senza mai pensare di sentirmi alla pari di un John Cage o Umberto Eco». E facendo i conti con quegli anni e il mondo di oggi? «Niente nostalgia, preferisco sempre l’oggi. Oggi il sapere è sempre centrale nonostante la maggior connessione e reperibilità di informazioni: anzi, proprio per questo, è necessario, se possibile, avere una cultura ancora più profonda, se si opera ai vertici. Il mondo cambia velocemente, questo è un fatto: l’importante è avere sempre gli strumenti giusti per accogliere e decodificare quello che ci circonda. Una prassi che valeva ieri come oggi».
Luca Cecchelli
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