Indicato come (probabile) prossimo successore alla guida della sala di via Pier Lombardo nella conferenza stampa dello scorso giugno, con l’inizio della stagione autunnale e di quella teatrale QUATTRO ha fatto visita al regista trentaseienne Raphael Tobia Vogel, figlio di Andrée Ruth Shammah. Lo abbiamo raggiunto nel suo ufficio open space al Teatro Franco Parenti, non solo per verificare l’annunciato “passaggio di testimone”, ma anche come pretesto per considerazioni, ricordi e visioni personali e professionali, tra presente, passato e soprattutto futuro.
Quali sono i primi ricordi proprio qui, al Parenti?
«Mia madre mi ci portava già molto piccolo, ma i miei primi flashback affiorano intorno ai 6 anni: una sorta di grande casa accogliente che non riuscivo a distinguere dalla mia, complice la possibilità di potermi muovere liberamente per gli spazi. Esplorazioni e avventure per le sale, affascinato da questi luoghi abitati davvero da energie e spiritelli. Una sorta di luna park di cui ancora non percepivo la serietà lavorativa, tanto da interrompere spesso le prove con, immagino, insofferenza degli attori».
Quando hai cominciato a maturare il desiderio di diventare regista?
«Da teenager. Dalla semplice abitudine di guardare insieme a mio padre un film dopo cena, cominciando poi ad affinare un mio gusto scegliendo i titoli, curiosando poi tra contenuti extra e documentari e scoprendo la materia e l’attenzione al dettaglio di molti registi. Ad esempio quando ho visto quel film di Kubrick (indica la locandina di “Arancia Meccanica”, sulla parete alle nostre spalle) ho pensato: “Wow, allora questo significa fare cinema?!” Dopo il liceo classico sono andato a Londra per un anno e mezzo a studiare e capire se quella potesse davvero essere la strada. La scuola di cinema ha letteralmente fatto sbocciare questa inclinazione, portandomi alla coscienza quella voglia di raccontare storie, insieme a una sana forma di controllo nel coordinare una squadra per comunicare una visione. Tornato dall’Inghilterra ho trascorso circa 5 anni a Roma prima come aiuto regista in molti film di Pupi Avati, uno di Salvatores e poi finalmente primo aiuto in una pellicola di De Maria. Finché, sazio di dedicarmi alle regie altrui, ho tentato i miei primi lavori, documentari per la Rai e cortometraggi. E poi è arrivato il teatro (sorride)».
Prima regia è quella di Per strada (2016), che ha debuttato qui: come arrivi a questa tappa?
«Dall’amicizia con Francesco Brandi, che un giorno mi ha chiesto semplicemente un parere su un testo che aveva scritto. Fitto di parallelismi e richiami alla mia e alla sua vita, mi ha appassionato profondamente. Al punto da farmi pensare che, se proprio avessi dovuto fare un “esperimento” col teatro, quella poteva essere l’occasione giusta».
Con quali emozioni ricordi la realizzazione del tuo primo spettacolo?
«Inizialmente con lo spirito del “Vada anche male, sarà un modo per confermare a me stesso: Raphael c’hai provato, non fa per te!” Mi frenava molto l’idea che responsabilità e coraggio nelle decisioni venissero da me, che non avevo di fatto esperienza. Mi ha aiutato molto l’amicizia con Brandi e il rapporto intimo con l’attore Francesco Sferrazza Papa: mi hanno fatto sentire come all’interno di una squadra-famiglia. Le scelte fatte insieme durante le prove cominciarono a entusiasmarmi e a poco a poco, mettendo a punto tutte le potenzialità del testo, ho visto sempre più prendere forma qualcosa dal nulla. E infine, di fronte al successo ottenuto, prima col pubblico poi con la critica, mi sono detto: “Ma sì, ha senso dare un’occasione al teatro”».
Confermi l’ipotesi fatta in conferenza a giugno sulla tua successione?
«Ne sono certamente onorato. Però è anche giusto dire che è stata più un’affermazione nata dal sentimento di una riflessione sul futuro che una scelta meditata. Mi spiego: la chiusura dei festeggiamenti del cinquantesimo ha rappresentato un momento decisivo nel darsi mia madre conto di tutta la fatica sudata in questi anni, compresa l’incalzante consapevolezza che arriverà il momento in cui dover passare quel testimone in maniera definitiva. Io a oggi, pur facendo parte del consiglio di amministrazione e chiamato in causa in ogni incontro di produzione, distribuzione, o su progetti specifici, non ho ancora un ruolo preciso».
Come hai vissuto e vivi da figlio d’arte la tua vita professionale?
«Una condizione non facile, pur consapevole delle fortune che comporta. La vera criticità, originariamente, stava più nel fatto di non conoscermi bene. Ho affinato un animo fanciullesco che ho sempre mantenuto, perché quello giusto per la mia ricerca d’identità e un mio passo – che mia madre chiamerebbe pigrizia. Un passo che col tempo ha però scardinato tutto quel peso di responsabilità derivato dal fatto di essere un figlio d’arte. Mi ha reso più fiducioso nei miei mezzi, senza sentirmi in colpa per il privilegio di una fortuna ereditata».
Il tuo spettacolo di cui sei più orgoglioso e perché?
«Costellazioni. Non perché l’ultimo sia necessariamente quello di cui essere più fieri, ma perché è molto profondo: in scena due attori bravissimi, un impianto scenografico molto particolare, temi delicati sia a livello di fisica quantistica che di malattia».
Hai portato a teatro scelte molto cinematografiche: come si è evoluto il tuo approccio alla regia?
«Parlerei più di trasformazione, di un cambiamento di gusto. Per strada risultò inevitabilmente molto cinematografico: tulle che separavano tre zone e proiezioni video in una sorta di limbo senza tempo, in cui teatro e cinema comunicavano in maniera disinvolta. Nell’ultimo spettacolo che sto preparando (indica sul tavolo il copione di “Scene da un matrimonio” di Bergman, che debutterà a marzo 2024) sarei tentato di tornare ancora al linguaggio cinematografico, ma la sfida sarà attenermi a scenografie più materiche».
Il prossimo spettacolo sarà drammatico, mentre in passato hai avuto successo con la commedia. C’è un genere che prediligi o intendi approfondire?
«Con i testi di Brandi sono partito da una commedia leggera, la dark comedy, molto critica e cinica, con finali violenti. Dopo lo spettacolo di Bergman vorrei tornare a occuparmi del rapporto con la fantascienza, tematica molto stimolante. L’ho già fatto in Marjorie Prime, che trattava di ologrammi e la difficile interazione con la tecnologia. La società distopica del futuro è un argomento che mi spaventa e allo stesso tempo mi affascina».
C’è una direzione che stai dando alla tua ricerca?
«Uno dei compiti che un regista deve tener presente è mantenere la discussione su tematiche che possano aprire gli occhi, o per lo meno dare spunti per mettere in discussione la propria visione della vita. (Si volta verso il copione sul tavolo) Nello spettacolo di Bergman, si parlerà di amore e risentimento, qualcosa che mi tocca molto. In un mondo influenzato dalla tecnologia e dai social network riportare sotto una lente di ingrandimento il rapporto umano e la vita dei sentimenti come fa questo testo è molto importante per ricordarci che la vita vera è molto diversa da quella virtuale. Per questo credo che sia un testo ancora molto attuale. E sicuramente farà riflettere».
© Luca Cecchelli
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