Arturo Brachetti fotografato da ©Paolo Ranzani

Non solo cultore del trasformismo, anche illusionista, attore, showteller e regista teatrale torinese, con un inconfondibile ciuffo e un repertorio di numeri in continua evoluzione, dal sand painting alle ombre cinesi: Arturo Brachetti ha fatto tappa lo scorso mese al Teatro Oscar per un frizzante e intimo talk show autocelebrativo, tra palcoscenico e vita privata. Dopo confidenze, giochi, ricordi e aneddoti di tournée rievocati a partire dalle domande del pubblico in sala, ancora più incuriositi noi di QUATTRO gli abbiamo chiesto di raccontarci altro…Con la promessa di rivederlo a Milano la prossima stagione, al termine delle date di Cabaret, musical nel quale è attualmente impegnato e la preparazione di una originale conferenza-spettacolo sulla storia del varietà.

Dopo averti ascoltato in “Arturo racconta Brachetti” viene intanto spontaneo chiedere: c’è differenza tra Arturo e Brachetti?
«Una differenza tra l’artista in scena e il borghese nella quotidianità c’è sempre. Magari non tranchant come quella tra Totò e il Principe De Curtis, ma sicuramente io non sono lo stesso che si vede quando mi trasformo, sparisco o volo. Nel privato sono più morigerato, più che artista sono artigiano: mi piace molto esprimermi attraverso la manualità».

Perché hai accennato al fatto che “tutto è nato da un solaio”?
«A 7 anni mi regalarono un teatrino delle marionette e me ne innamorai. Mi ci divertivo ogni giorno, mi documentavo sull’enciclopedia riguardo le macchinerie teatrali, feci persino un piccolo palcoscenico girevole, tanto che a un certo punto i miei genitori mi dissero “vai a giocare in solaio!” Questa ossessione è durata fino ai 14 anni, quando, entrato in seminario a Chieri, ho incontrato don Silvio Mantelli, il prete che faceva giochi di prestigio. Da don Silvio, noto come “Mago Sales”, ho appreso i rudimenti dell’illusionismo».

Lì hai capito di non avere la vocazione religiosa ma quella per lo spettacolo?
«Ho capito che avevo… un asso nella manica (ammicca)! A scuola mi bullizzavano, ma quando intrattenevo chiedendo “pesca una carta dal mazzo che la indovino” tutti rimanevano a bocca aperta. La volontà più concreta l’ho manifestata abbandonando il seminario a 17 anni. Don Silvio mi disse: “Non è importante avere una vocazione religiosa, è importante avere una vocazione. Se la tua è quella di far sorridere e sognare la gente, perseguila”».

Tappa importante resta la tua conoscenza di Leopoldo Fregoli, inventore del trasformismo. Come hai scoperto i suoi trucchi nell’era pre-internet?
«Li ho indovinati, dedotti dalle foto e dalle descrizioni di alcuni libri. Erano molto semplici, si serviva di fil di ferro e l’aiuto di assistenti. Ho potuto visionare anche i suoi filmati: le sue trasformazioni avvenivano entro i 6 massimo 10 secondi, un fulmine per l’epoca – oggi andare oltre i 3 secondi significa essere lento».

Arturo Brachetti fotografato da ©Paolo Ranzani

Dal 1978, a 21 anni, con una valigia e un solo numero, sempre più vai assumendo notorietà per aver riportato in auge, in Italia e nel mondo, questa disciplina pressoché scomparsa dopo la morte di Fregoli nel 1936. Arrivato in Francia hai avuto subito successo: perché?
«Quando ho lavorato a Parigi nel 1979 ero l’unico, da allora i francesi sono rimasti affascinati dai miei show. La Francia è il paese più recettivo semplicemente perché è quello che ha inventato il Café chantant poi diventato il varietà e prima ancora le feste e il Grand Divertissment per Luigi XIV. Lo spettacolo musicale e visivo è un’arte dal DNA francese».

“The legend of quick change”: dal 2002 sei nel Guinness dei primati come il trasformista più veloce del mondo (100 cambi d’abito in 100 minuti). A oggi il più importante interprete mondiale di questo genere. Con gli anni senti pressione dal punto di vista della resa delle tue performance?
«Sì, ammetto di avere un po’ d’ansia da prestazione! C’è, com’è naturale, pretesa da parte del pubblico che vuole sempre il massimo, anzi magari godersi la performance più veloce e più personaggi possibili. A 67 anni l’idea di creare qualcosa di ancora più potente di ciò che sto già presentando è stimolante ma comincia a farsi un po’ impegnativa, non lo nego».

Circa 400 vestiti in 45 anni di carriera. Qual è il rapporto con i tuoi sarti, che custodiscono i tuoi segreti?
«Grande fiducia, anche se ovviamente sono tenuti a firmare accordi di segretezza. Poi su internet ci sono incoscienti che per avere visualizzazioni svelano tutto. “Incoscienti” perché è un po’ come voler spiegare ai bambini che Babbo Natale non esiste. È la realtà immaginata quella che ci rende più felici: che si creda pure alla magia se ci aiuta a vivere meglio».

Trasformarsi è terapeutico?
«Sì, è un viaggio nell’essere umano. Se in una sera divento 20 donne, 30 uomini, due bambini, un diavolo, un angelo, è come se mi facessi una seduta di psicanalisi e retribuita! Mettersi in un altro corpo, un’altra mente, a volte l’opposto di quel che sei, vuol dire aprire stanze segrete nel nostro inconscio. Soprattutto truccarsi e provare ogni sera un costume, vedendo allo specchio un personaggio che da fuori ti entra dentro. E poi: Fake it till you make it!».

Hai avuto molti riconoscimenti, una tua statua è al Museo delle Cere di Parigi: a proposito di copie, come la vivi quando vedi i tuoi numeri rifatti?
«All’inizio, circa 30 anni fa, un po’ male. Per decenni sono stato l’unico al mondo con il mio One Man Show, poi certi colleghi hanno cominciato a copiarmi. Io che quei numeri li ho ideati non amo condividerli…ma oramai lascio correre, così è la vita».

arturo brachetti

Arturo Brachetti fotografato da ©Paolo Ranzani

Svelati o no sei comunque un maestro e hai lavorato con grandi artisti, tra i più noti Aldo, Giovanni e Giacomo.
«Consiglio volentieri tutto quello che posso in base alla mia esperienza. Io per primo ho spesso rubato quello che ho imparato, cercando però di capire dai miei maestri non solo come si fa qualcosa, ma anche il perché. Per questo non vedo possibili rivali: molti si arenano nella confezione della scatola senza metterci dentro niente di personale. Un artista è vincente quando porta in scena un suo mondo riconoscibile – come quando individui da pochi tratti lo stile di Van Gogh, o poche note ti evocano subito Nino Rota o Danny Elfman. Quelli che copiano fanno solo patchwork senza anima. I miei oltre 500 spettacoli rispecchiano la mia intima dimensione creativa alimentata da film che ho visto, libri che ho letto, esperienze che ho vissuto, tutti momenti che mi hanno lasciato un seme nel giardino dell’anima che poi ha dato un frutto. Quello non si può copiare».

Tra te e Fregoli sono passati ben cinquant’anni. Parlando non di competitor ma di eredi, vedi un futuro prossimo per questo genere di spettacolo?
«Posso ritenermi il Fregoli degli anni 2000. Ci separano solo alcuni imitatori, ma nessuno che lo abbia mai effettivamente eguagliato. Nessuno che abbia fatto il giro del mondo come lui, come oggi nessuno ancora che abbia un One Man Show come il mio. Certo mi auguro che in futuro qualcuno raccolga quello che abbiamo fatto io e Fregoli per inventare qualcosa di nuovo. Già vedo che le mie trasformazioni vengono spesso usate nelle commedie musicali e poi chissà… per ora ci sono io e per un po’ non ho intenzione di sparire (ammicca)».

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