L’attività della panetteria Bazzini è iniziata, come attesta un documento del 1822, a Sant’Agata di Gorgonzola con Gaetano Bazzini. Da allora sette generazioni si sono avvicendate davanti al forno, passando per Treviglio e Cernusco, fino al 1939 quando Ambrogio si stabilisce in via dei Panigarola dove ancora oggi a servire i clienti ci sono la moglie Gabriella, la figlia Barbara e la nipote Chiara.
Francesco, che oltre ad aver sposato Barbara ha “sposato” questo mestiere lasciando quello di trainer, è la settima generazione che impasta, cura la lievitazione della massa, un preimpasto di farina acqua e lievito chiamata “biga”, e mette in forno le teglie di pane prima di focacce e torte.
È Gabriella che racconta la storia mentre finisce di sistemare un grosso scatolone di chiacchiere: «Le ho fritte stamattina e nel pomeriggio faccio i ravioli» a riprova che la passione per lo stare a “bottega” è ancora viva “nonostante le mie tante primavere”.
Primavere che non le impediscono di seguire l’andamento della panetteria anche quando, rimasta vedova, ha conciliato con fatica famiglia e attività, già di per sé sinonimo di sacrifici per orari e turni di lavoro.

«Nonostante l’aiutante di mio marito e un altro che si era aggiunto – ricorda Gabriella – scendevo a mezzanotte a controllare l’arrivo degli operai, poi ritornavo in casa per scendere di nuovo alle 5. Da allora non dormo più di quattro, cinque ore per notte. Ormai mi sono abituata. Poi c’è da dire che quando chiudevamo, nel pomeriggio ero impegnata a fare i dolci. Avremmo potuto cambiare e appoggiarci all’esterno, ma quello avrebbe cambiato la tipologia di qualità dei nostri prodotti.
«Quando mio suocero Cesare aprì la panetteria – prosegue – facevano solo il pane e in quel periodo la gente aveva fame, era già tempo di guerra e capitava che la gente scendesse con le federe dei cuscini per riempirle perché era difficile trovare a quei tempi la farina. Era contingentata e tesserata, e di conseguenza le “michette”».

Solo dopo la guerra è iniziata la produzione dolciaria che ha portato ad aprire nel ’68 una rivendita in via dei Cinquecento, «dove una volta c’erano un sacco di negozi – prosegue Gabriella offrendomi una croccante chiacchiera, due per essere onesto, e un buon caffè -. Salumiere, calzolaio, macellaio, drogheria, pollivendolo oggi spariti e sostituiti da negozi etnici. A un certo punto abbiamo chiuso la rivendita; restare aperti non era più sostenibile economicamente».
Anche la clientela è cambiata, oggi nelle case attorno gran parte degli abitanti sono stranieri e questo si è riverberato sui consumi. La grande distribuzione ha colpito il piccolo e la produzione di pane è scesa, come conferma Francesco che a mezzanotte scende per preparare la “biga” e successivamente il pane, anche quello da consegnare alle scuole, e le brioche. «Oggi siamo arrivati sotto i cento chili, una volta arrivavamo a due quintali» – precisa Francesco. Senza dimenticare le pizze e le focacce. Panettoni e colombe quando è stagione.
Avrete conosciuto un gran numero di persone e visto cambiare il panorama del quartiere stando qua da quasi 100 anni.
«Certamente, quando è mancato mio suocero, per dire in quanti lo conoscevano, la coda per seguire il funerale faceva il giro di Gabriele Rosa. In viale Omero non c’era nulla, solo le casette. Ho visto rivoluzionare il quartiere – racconta Gabriella -. Adesso stanno scappando in tanti».

Sull’onda dei ricordi Gabriella racconta che quando avevano la rivendita ha visto entrare la Pavone, Celentano, Morandi, Mina, perché ancora negli Anni 60 vicino alla chiesa c’era la sala Ricordi dove venivano a incidere. Così, finite le registrazioni, questi grandi della musica entravano per mangiare la focaccia o la pizza.
Una realtà che, come molte altre attività, per tenacia e passione resiste nonostante i tempi e, come dice Francesco: «Siamo rimasti in pochi». «Pochi ma buoni», chiude la chiacchierata Gabriella.

 

 

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