Al fiore del quale portava il nome Rosa Genoni usava riferirsi con la trama delle parole: “La fragranza sta sempre nella mano che porge la rosa” diceva. E anche: “Ama la rosa, ma lasciala sul suo gambo”. Ma il talento della creatrice di moda non prescindeva dal contenitore della bellezza, e quel “Qualche volta la rosa avvizzisce per il vaso” risultava allusivo, per lei che ideava i “contenitori” strabilianti con i quali ha sfidato l’imperante moda francese che teneva in soggezione l’italico provincialismo.
Per le donne i tempi non sono mai stati facili, le società umane le hanno sempre volute arrancanti lungo la salita di un piano inclinato ostile e selettivo di brutta selezione, il ceto ad attenuare ma fino a un certo punto, oltre la poca istruzione e il matrimonio e le maternità era difficile che qualcuna riuscisse ad andare.
Quando poi nasci nel 1867 in una piccola località, figlia primogenita che si è vista allineare dietro le spalle diciassette fra fratelli e sorelle, undici dei quali sopravvissuti alla legge non scritta che pretendeva grandi numeri per trasmettere al mondo le ristrettezze di una famiglia umile, cosa potrai sperare mai. L’apice del tuo essere donna dovrà consistere nel diventare a tua volta moglie e fattrice, angelo di un focolare non sempre facile da tenere acceso.
A meno che; e in questo “a meno che” non ci siano individualità capaci di sfidare i vincoli sociali rifiutando la rassegnazione che costringe ad accettarli, come appunto è accaduto a lei, Rosa Genoni (Tirano 11 giugno 1867-Varese 12 agosto 1954), la famiglia modesta e la poca istruzione a sembrare ostacoli invalicabili per una bambina di dieci anni, mandata a Milano presso la zia sarta per apprendere il giusto qualcosa di un lavoro dal percorso segnato.
Ma l’indole di Rosa non era tale da rassegnarsi al sopravvivere di ago e filo. Prima l’anticonformismo della scuola serale, e dopo, la domenica mattina, il corso di francese a farle da messa, per apprendere la lingua delle cui parole le riviste di moda della sartoria erano piene, e che le clienti, indicando i modelli, ripetevano storpiando nel profluvio del dialetto milanese.
Fu appunto la conoscenza di quella lingua straniera appresa rubando tempo al tempo e preghiere a Dio a dare un indirizzo ben connotato alla vita di Rosa. Questo perché la piscinina diventata sartina s’era rivelata sensibile alle rivendicazioni sociali che caratterizzavano il periodo post risorgimentale, ne frequentava i circoli venendo a contatto con personalità quali Filippo Turati e Anna Kulishoff. Nel 1884, proprio in virtù del conoscere la lingua, venne mandata a Parigi per partecipare a un convegno riguardante le condizioni delle masse lavoratrici. In Francia rimase tre anni, osservando e studiando, la politica e l’estro creativo a mescolarsi, con i suoi scritti già densi di impegno e gli schizzi, per l’epoca rivoluzionari, dominati dall’avversione verso l’imperante corsetto che le faceva dire: “Le donne non svengono perché sono sensibili, ma perché non respirano.”
L’impegno civile, che la vide entrare nella Lega promotrice degli interessi femminili, continuò ad affiancare l’attività professionale, e la cosa, nell’Italia umbertina timorosa di qualsivoglia cambiamento, avrebbe potuto ostacolarla. L’evidenza delle qualità la portarono invece in ambiti sempre più prestigiosi, da un atelier di Nizza a una casa di moda nel centro di Milano.
Nella sua vita anche l’amore, con il “nato bene” Alfredo Podreider che per starle accanto avrebbe messo in crisi i rapporti con la propria famiglia contraria a quell’unione, e la nascita, nel 1903, della figlia Fanny, con il passo in più dell’insegnamento presso la scuola professionale femminile della Società Umanitaria, i suoi corsi di sartoria, lingerie e modisteria a evolversi comprendendo la storia del costume attraverso la storia dell’arte, le alunne prese dalla diavoleria dei vetrini che passavano attraverso la lanterna magica.
L’impegno sociale non faceva venire meno quello professionale, improntato a una creatività che voleva che la moda italiana si rendesse estranea agli scimmiottamenti di quanto avveniva Oltralpe, e ciò emerse evidente nel libro Per una moda italiana pubblicato nel 1909, punto fermo di un bel vestire in grado di trovare radici nell’arte.
Convinta non interventista, fra il 1914 e il 1915 si produsse in scritti e conferenze di chiara impronta pacifista.
Nel 1925, a massacro del Primo Conflitto Mondiale consumato, con la nazione ancora più impoverita dall’epidemia di “spagnola” e la democrazia soffocata dalla presa di potere di un fascismo che aveva assassinato Giacomo Matteotti, fu nell’amarezza di tali eventi che mise a punto il progetto editoriale Storia della moda italiana attraverso i secoli a mezzo dell’immagine, di cui venne pubblicato solo il primo volume.
Era ormai un personaggio affermato, e le sue idee “nazionaliste” in fatto di moda non sarebbero dovute dispiacere al regime fascista, che del resto non stava trovando nella società italiana grandi resistenze residue, il tirare a campare dell’adattarsi a tutto divenuto norma.
Ma la regola trova sempre l’inciampo dell’eccezione, così, nel 1931, la richiesta perentoria per chiunque avesse incarichi pubblici di giurare fedeltà al regime, largamente soddisfatta, fece scattare nell’anima socialista di Rosa la molla del rifiuto, che la portò a lasciare l’insegnamento.
Ciò non rappresentò per lei l’estraniarsi dalla missione sociale. Fu attraverso il marito Alfredo che riuscì a finanziare un laboratorio di sartoria all’interno della sezione femminile del carcere di San Vittore, seguito da un nido d’infanzia per i figli delle detenute e da un gabinetto igienico-sanitario.
Ritiratasi nel 1932 a Sanremo, la sua verve di creatrice di bellezza e di curiosa delle cose non cessò di animarla, così da farle apprendere e applicare in un terreno di sua proprietà i principi dell’agricoltura biodinamica.
Rimasta vedova e trasferitasi con la figlia Fanny a Varese, non smise di guardare il mondo con animo pacifista, fino a scrivere al mediatore delle Nazioni Unite, conte Bernadotte, perché ebrei e palestinesi potessero in armonia condividere quella che i saggi chiamavano “la terra del latte e del miele”, sulla quale sia gli uni che gli altri accampavano irrinunciabili diritti.
Anche in età avanzata conservava il senso di indipendenza che l’aveva sempre caratterizzata, al punto che, per sottrarsi all’infantile invadenza della nipotina Raffaella, figlia di Fanny, soleva mettere davanti alla propria camera un manichino vestito sì di tutto punto, ma pur sempre manichino, il che comportava che Fanny si vedesse arrivare davanti una spaventata Raffaella che indicava “la donna senza testa”.
Ed è questa bimba di allora a conservare e tenere vivo il ricordo della nonna anticipatrice di un tutto che per le donne non si è completamente realizzato, e che l’atavismo riesce ancora a contrastare.
Nella propria abitazione, in via Fiamma, racconta aneddoti con divertita ironia, ma basta percorrere qualche passo per entrare nell’ala dell’appartamento che è stata di Fanny, la madre, il cui bel volto si mostra in una foto e in un olio che fanno da premessa.
Ed è in questi ambienti pieni di immagini e oggetti che il personaggio Rosa Genoni diventa persona. Sugli scaffali di uno studiolo si allineano sia le pubblicazioni dei suoi tanti scritti, perché Rosa di suo godeva del dono naturale di essere “una buona penna”, e sia le pubblicazioni che di lei hanno parlato.
È un approccio formale, ma nella stanza successiva ecco il ricordo farsi palpabile, perché in un ambito ancora denso di molto, insieme con le fotografie, fra cui quelle di una mannequin seducente come la diva Lyda Borelli che indossa gli splendidi abiti, ci sono i policromi disegni originali dei modelli, a testimonianza del fatto che, oltre a essere una buona penna, Rosa aveva anche “una bella mano”.
In tale nicchia di ricordi, attraverso i lineamenti franchi di Rosa che abbraccia la piccola Fanny, o indossa il mitico Tanagra, ispirato dalle statue ellenistiche in terracotta, le tanagrine, scoperte nel 1870 appunto a Tanagra, palpita la fierezza caparbia della lontana bambina di Tirano figlia del ciabattino un cui tema di terza elementare, talmente bello da venire letto in classe, aveva suscitato l’ira di una aristocraticissima compagna, fino allora reginetta di quel piccolo mondo, che l’aveva schiaffeggiata.
Ed eccole, invece, le aristocraticissime signore vestirsi con i suoi vestiti, inconsapevoli pioniere di un italian style con cui ai nostri giorni, come soleva ripetere Guido Vergani, l’Italia paga la propria pesante bolletta petrolifera.
Rosa Genoni si spense il 12 agosto del 1954, lasciando al mondo l’esempio del sapere affrontare la salita del piano inclinato tanto ostile alle donne usando sia i cingoli della determinazione, e sia le onde morbide di quei bellissimi abiti che non volevano saperne di corsetti.
Foto ©Archivio Genoni Podreider