Il teatro, con la sua importanza civile innegabile, rappresenta un ambito culturale favorevole per esprimere idee e contenuti in modo completo, linguaggi ed interpretazioni in uno spazio ideale, a diretto contatto con gli spettatori.
Considerando questo presupposto, il cammino e la crescita professionale di un artista hanno un valore aggiunto particolare quando i suoi lavori rispecchiano un’attenzione sia alla cultura sia all’educazione.
Gianfelice Facchetti, drammaturgo, attore e regista, ha saputo cogliere e sa valorizzare nella sua attività teatrale vari temi sociali e personaggi attuali, con un impegno creativo applicato alla realtà. Residente per vari anni in zona 4, Gianfelice è figlio di Giacinto Facchetti, ex bandiera dell’Inter e della Nazionale italiana di calcio.
Per approfondire il percorso professionale lo incontriamo in redazione, in occasione della presentazione di due spettacoli, di cui è autore e regista, che avranno luogo presso lo Spazio Tertulliano. “Mi voleva la Juve” con Giuseppe Scordio, dall’11 al 22 novembre, e “La confessione di Agostino”, in programma dal 2 al 20 marzo 2016, con Claudio Orlandini.

 

Lei è giovane, quali sono state le tappe della sua carriera?
«In realtà io ho cominciato, rispetto ai percorsi accademici tradizionali in teatro, abbastanza tardi, studiando recitazione nel 1998, a 24 anni. Avevo deciso di studiare per curiosità, non era in partenza una scelta professionale, allora lavoravo e avevo interrotto gli studi universitari».

Agli inizi il suo era quindi più un interesse culturale?
«Sì, io giocavo a pallone, ma poi avevo smesso. Il teatro era per me una suggestione, mia mamma aveva frequentato dei corsi per adulti e mi ha detto “perché non ci vai e ti chiarisci un poco le idee?”.  Ero in una fase in cui stavo cercando una strada e pian piano il teatro è diventato sempre più interessante per me. La scuola era “Quelli di Grock”; già al terzo anno ho debuttato in tournée con lo spettacolo “Moby” prodotto da loro. Nel frattempo ho concluso i miei studi laureandomi in Scienze dell’educazione e lavorando anche con altre compagnie.  Infine ho intrapreso una strada mia nel momento in cui ho iniziato a scrivere i primi testi, nel 2005».

La sua attenzione al sociale come si è sviluppata?
«La mia attività si è divisa fra i testi per il teatro vero e proprio e una serie di altre situazioni dove si usava il teatro in contesti di lavoro sociale, come ad esempio in carcere. Anni fa ho fatto partire “Teatro nel buio” all’Istituto dei Ciechi e ho lavorato tanto nelle scuole, dalle elementari alle medie e superiori e in varie comunità».

Ha legato in questo modo il suo percorso di studi dell’educazione, applicandolo alla comunicazione?
«Certo, utilizzando il teatro come mezzo, come supporto. È lo strumento di eccellenza che permette in vari contesti di privazione e di emarginazione di creare delle opportunità di narrazione, di racconto delle vite un poco “ballerine”».

Si dedica anche all’insegnamento?
«L’insegnamento della recitazione non mi interessa particolarmente, mi interessa invece lavorare in un gruppo, attorno a un soggetto costruendolo, non tanto in un percorso sulla didattica quanto insegnando a trasmettere qualcosa “facendolo”, “giocando” al teatro. Partendo da un’esperienza più ludica, con i ragazzi o come capitava con i detenuti, cerco di portare in superficie i concetti espressi».

I suoi testi sono delle narrazioni?
«Dipende, “Mi voleva la Juve” è molto semplice da questo punto di vista, è la storia di una persona, come costruzione è molto lineare. Altri spettacoli, come l’ultimo “C’era una volta un re”, con quattro attori, ha una costruzione completamente diversa, molto articolata dal punto di vista drammaturgico».

Quale è il suo rapporto con il pubblico e che tipo di riscontro riceve per gli argomenti da lei trattati?
«Il riscontro più interessante per me è il fatto che a distanza di tanti anni, avendo lavorato in tanti teatri di Milano, si è creato attorno a quel che propongo, al di là del posto o di chi sia coinvolto, una partecipazione. Posso contare sull’interesse di un certo tipo di pubblico, sempre incuriosito da ciò che continuo, anzi continuiamo a presentare con l’attore Pietro De Pascalis, e quindi non si parte mai da zero».

Quali ricordi ha della zona 4?
«Mi sono trovato benissimo in questa zona, vi ho abitato dal 2000 al 2008 in via Friuli. Questa zona era per noi familiare, l’ufficio di mio padre era in via Tiraboschi e da piccolo dopo la scuola venivamo spesso qui, ad incontrare anche mio zio e i cugini che tuttora hanno la sede della loro attività in via Cadore. Ricordo anche una minuscola torrefazione in viale Montenero che era uno dei miei punti di riferimento».

Un artista eclettico, Gianfelice Facchetti, che sa renderci partecipi di quanto una professione nel teatro, per il teatro, possa essere motivo di arricchimento personale e culturale, con proposte sentite e di profondità sociale.

Antonella Damiani

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